mercoledì 30 novembre 2011

RESISTERE E' CREARE

Penso sia carino introdurre il tutto con questo estratto dal libro "resistere è creare"
Sabatino Annecchiarico – Di fronte alla stanchezza e alla frustrazione per le tante sconfitte storiche contro il modello di vita capitalistico, tu proponi un diverso modo di “resistere” in una società capitalistica, fuori dagli schemi della sinistra tradizionale: una forma di resistenza “creativa”, in grado di portare cambiamenti “qui e ora”. La parola “resistenza” ha sempre avuto per noi tutti un senso profondo e forte; qual è oggi il nuovo significato che dai a questa azione?

Miguel Benasayag – Resistere, in questo caso, non ha il significato di resistere a un’occupazione, per esempio la resistenza francese all’occupazione tedesca o quella del popolo argentino alla dittatura militare. La resistenza cui faccio riferimento è piuttosto un modo di vita. Qui la resistenza è una posizione esistenziale, una resistenza precisa in un dato periodo storico. Diciamo che quando si vive un periodo storico delimitato, come un’occupazione straniera o una dittatura, l’obiettivo è chiaro: si finisce di resistere quando i motivi per farlo sono finiti e si ritorna alla vita “normale”, alla vita di prima.
Invece la resistenza al capitalismo, al neoliberismo, così come la resistenza alla tristezza della nostra società, non può essere pensata come una resistenza che preveda uno scontro. In tutti gli scontri del secolo scorso, indipendentemente che si vincesse o si perdesse, abbiamo visto che in nessun caso, nemmeno quando si é vinto, ciò è stato sufficiente per dar vita a qualcosa di nuovo. Sicuramente questa è stata una delle cause del disastro del Novecento: pur con il trionfo di molte rivoluzioni e con la vittoria di molte elezioni da parte della sinistra, non si è mai potuto o semplicemente non si è mai saputo cosa fare perché ci fosse un cambiamento nella società. Si era a quei tempi concentrati sullo scontro e sulla presa del potere. L’idea naturalmente non è quella di abbandonare lo scontro, va oltre, bisogna catturarlo. Però non si può pensare al capitalismo, alla società e alla tristezza attuale solo in termini di scontro senza un’effettiva forma di resistenza immediatamente associata all’idea della creazione del nuovo, qui e ora.

[…]

..No,no,no,no..

Questa non è una conferenza,

non è un seminario..

Questo è un incontro di guerra!!

COSA STA SUCCEDENDO PERCHÉ  SIAMO QUI??

Siamo in un momento in cui per fare valere i nostri diritti, per rivendicare una certa idea di società  prima ancora di una particolare idea di professione, siamo costretti a scendere in piazza. Però ciò che appare chiaro, che tu e tutti noi sappiamo benissimo, è che non basta scendere in piazza per ottenere qualche cosa, anzi, ogni tanto si ha proprio l’impressione che tutti questi sforzi non servano a nulla!

Come facciamo a fare sentire la nostra voce??

Cedo ora la parola agli studenti dell’Interfacoltà, che meglio di me possono spiegarti il senso dell’averti invitato qui a condividere la tua esperienza con noi, a riflettere insieme su questioni importanti per la loro e la nostra possibilità di azione futura. (professor Paolo Bianchini)

Piacere sono Roberto e volevo raccontarti un po’ cosa è successo a noi studenti del Corso di Laurea in Educazione Professionale. Quest’anno è stato totalmente azerato il budget destinato al finanziamento delle attività professionalizzanti nel nostro iter formativo. Mi riferisco alle lezioni integrative ed ai tutoraggi del tirocinio che, essendo tenuti da professionisti già operanti nel mondo dei servizi, ci permettevano  di toccare con mano quella che sarebbe stata la nostra professione futura.  Beh (ahinoi) abbiamo scoperto e sperimentato sulla nostra pelle ciò che tutti i giorni sentiamo al telegiornale: i tagli, la mancanza di soldi e  tutte  queste cose inerenti alla famigerata crisi che fino ad allora non avevamo percepito come reali, nel senso di riguardanti la nostra personale esperienza e vita in questo mondo.. cose di cui fino ad ora, sentendone parlare comodamente dal divano di casa nostra, non avevamo capito la gravità.

Ci siamo allora mobilitati organizzando una serie di iniziative anche un po’ creative, un flash mob davanti al palazzo delle Regione ed un mail bombing costante e pressante, per chiedere un po’ delle spiegazioni rispetto a questi tagli. Addirittura Cota o chi per esso,  ci ha risposto assicurandoci che tuttora le integrative e gli spazi di tutoraggio sono ritenuti imprescindibili per lo sviluppo di una professionalità equilibrata. Purtroppo però i vincoli di bilancio e la scarsità di risorse economiche, impediscono di poter spendere un centesimo nella nostra formazione, volendo garantire prima di tutto la sopravvivenza dei ben più utili ed indispensabili servizi presenti sul territorio piemontese.

Effettivamente possiamo “ritenerci fortunati” : abbiamo avuto una risposta, ma questo non ci basta!

Non vogliamo essere solo parte di un rendiconto finanziario, voci in un documento di pianificazione economica da depennare al primo sentore di crisi. Siamo operatori sociali e vorremo che venisse riconosciuto il ruolo importante che ricopriamo all’interno della società.

Non abbiamo intenzione di interrompere la nostra mobilitazione, e vorremmo confrontarci con te a riguardo.. vorremo che ci dessi un tuo parere personale rispetto questa situazione.

Sai, le tue parole sono interessanti e sollevano una questione davvero importante!! Hai parlato dell’incontro tragico con il mondo lontano di cui avete sentito parlare solo nei  telegiornali, che dalla comodità della vostra poltrona domestica, non vi aspettavate potesse toccarvi così da vicino.

Beh io penso che il fatto di creare distanza tra il mondo reale e le concrete esistenze delle persone, è il principale dispositivo per produrre incapacità di agire,  impotenza.  In sostanza noi abbiamo preoccupazioni più o meno gravi, ma il nostro immediato è sempre altro rispetto all’immediato del mondo. Abbiamo un po’ questa concezione che il mondo sia qualcosa di cui si occupano solo i grandi, le “persone importanti” come Berlusconi, Sarkozy e via dicendo. Noi ci sentiamo davvero piccoli in confronto a questa dimensione, abbiamo sì delle opinioni, anche molte opinioni, ma sono completamente disconnesse dall’epoca storica in cui viviamo.

Beh ribadisco, questo è il dispositivo fondamentale su cui si costruisce l’ impotenza nella nostra epoca.

Ci terrei ora a fare una piccola parentesi per  spiegare la differenza tra due concetti che ci permetteranno una più facile comunicazione, introducendo una base di significati comuni funzionali ad una migliore comprensione reciproca.

Vorrei marcare la distinzione tra ciò che consideriamo tragico, e ciò che consideriamo grave. Grave è un fatto che può colpire la mia vita, può colpire la tua, ma che sicuramente non è percepito come un qualcosa che tocca le vite di tutti: è un avvenimento che non crea legame tra le persone. Tragico è invece un avvenimento che l’umanità intera sente come riguardante la propria vita. Quando parliamo di cose tragiche, ci riferiamo a quel particolare modo di intendere gli avvenimenti della nostra epoca, come qualcosa che ci riguarda;  un problema che fa parte della nostra vita. Raggiungo la dimensione tragica quando considero la mia vita attraversata dall’epoca storica cui appartengo.

Ora vorrei che riflettessimo insieme su ciò che è un dato di fatto: le autorità a cui ci rivogliamo per lamentarci e chiedere spiegazioni di situazioni che riteniamo gravi, hanno in testa il principio dell’economicismo, che credono coincida con il principio regolatore dell’insieme: pensano di avere il giusto punto di vista per cogliere nell’intero la realtà concreta. Ai loro occhi quindi la nostra voglia di rivendicazione, appare solo come una delle tante in un mondo in cui ciascuno ritiene che la sua causa sia la più importante e meritevole di giustizia.

In questa situazione rischiamo di fare un po’ la figura degli ingenui: certo noi affermiamo con forza la nostra importanza ma del resto come tanti altri. Tutti pensano che la propria situazione sia la più importante.

Dobbiamo prendere atto che nella nostra società esiste un nuovo dio capriccioso dell’Olimpo, l’economicismo, che può schiacciare le persone con una freddezza disumana . La situazione è così e non possiamo fare altro che prenderne atto. In questo contesto perciò resistere, lottare significa non fermarsi solo ad affermare SONO INDIGNATO.  Fermandoci a questo livello, potremo cadere nella trappola di una posizione narcisista ed  impotente: io sono indignato perché penso che il mondo debba essere altro. Ma dal punto di vista del potere attuale non c’è un altro mondo possibile a lato di quello in cui si può decidere arbitrariamente di tagliare i fondi al sociale.

Dobbiamo resistere prendendo coscienza che questa è la realtà e possiamo lottare in due modi differenti:

1-da un lato possiamo bloccarci a pensare che il nostro lavoro è fondamentale e davvero troppo importante per essere eliminato, possiamo assistere increduli ed impotenti alla sua distruzione da parte del potere. Reazione che tra l’altro,  non ci porta da nessuna parte.

2-oppure possiamo accettare il fatto che in quanto studenti futuri operatori sociali, siamo vittime di una realtà che avanza, che è irreversibile e che il nostro lavoro è completamente immerso in essa. La vostra reazione deve essere perciò all’altezza di questa realtà. Non basta indignarsi per la mancanza di fondi da destinare alle integrative ed ai tutoraggi di tirocinio: non bisogna opporsi solo ai tagli effettuati, ma combattere la politica che sta alla base di questi tagli.

Voi siete operatori sociali, ed il racconto che vi viene somministrato, è che lavorate per integrare gli esclusi e gli emarginati ma questo non è assolutamente vero! Loro non sono emarginati o esclusi: occupano un preciso posto all’interno di una società che va verso l’apartheid concreto. Faccio un esempio perché capiate meglio che cosa intendo.  In Brasile esistono molto i quartieri murati con le guardie armate e di fianco le favelas. Sono un po’ due mondi che si sfidano, che sono in guerra l’uno con l’altro. C’è apartheid perché per esempio avere l’appendicite all’interno di Fortaleza è una cosa considerata gravissima, ma le morti all’interno delle favelas sono normali, fanno parte del quotidiano.  L’apartheid è proprio questo:  pensare che tutte le vite non valgano lo stesso.  In questa situazione, anche il povero, lo straniero senza documenti o il senza fissa dimora hanno un preciso posto all’interno della società.

Dobbiamo VEDERE e CAPIRE ciò che è il mondo. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che proprio in rapporto all’andamento del mondo il nostro è un lavoro impossibile..

Come integrare l’escluso? 

Beh, se ci fermassimo a riflettere davvero, ci renderemo conto che in realtà escluso non è,  in quanto questa definizione corrisponde solo ad un determinato modo di organizzare ed intendere una società.  Dunque in che cosa consiste il lavoro sociale?  Possiamo aspettare e tranquillizzare colui  che soffre o possiamo creare un luogo di resistenza con l'altro. Creare e produrre luoghi dove siamo imbarcati insieme , luoghi che sono una resistenza al modo globale di interpretare la realtà.. questa è la vera sfida!!

Io sono completamente d’accordo con te quando affermi che dal proprio divano, ciascuno si sente  impotente di fronte agli avvenimenti di una realtà più globale,  sicuramente ciascuno di noi è schiavo di questo meccanismo.. mi han toccato profondamente le tue parole perché questa situazione mi appartiene sotto vari punti. Man mano negli anni, il sentimento che matura è la rabbia, è la collera che poi viene soppressa nel quotidiano da tutte le piccole preoccupazioni personali che ciascuno di noi deve portare avanti: la scuola dei figli, il lavoro, la famiglia.. si ha un po’ la sensazione che la vita ti sfugga di mano, mentre le cose davvero importanti rimangono da parte. Un’altra questione che mi pare pericolosa, è che nonostante si organizzino manifestazioni, si cerchi di organizzarsi per concretizzare azioni di protesta, è un po’ come ci fosse sempre un diavoletto a sussurrarci nell’orecchio che tanto qualsiasi cosa faremo non servirà a nulla perché il potere è troppo  forte.

Quello che mi chiedo è quanto è giusto protestare sotto la forma della democrazia e quanto invece è più necessario, anche se un po’ anacronistico, me ne rendo conto, prendere come modello la guerriglia armata del Che, la protesta di Martin Luther King o di Gandhi.. insomma, quanto uno deve fare sul serio per cambiare la situazione?? Mi viene da interrogarmi perché guardando indietro, mi rendo conto che negli anni ’80 succedeva un po’ lo stesso riguardo alle manifestazioni perciò io mi chiedo, saremo sulla giusta strada??

Io capisco che il motore primo sia la rabbia per le ingiustizie a cui assistiamo inermi tutti i giorni.. ma la cosa che dobbiamo fare più di tutto è trovare quelle pratiche che permettano di superare la separazione tra  noi come individui e l’epoca storica. Io ho fatto parte della guerriglia armata contro i militari per 10 anni, certo 4 e mezzo in carcere, ma comunque siamo andati avanti dieci anni. E la cosa che ci tengo a chiarire è che in quegli anni abbiamo scelto una precisa modalità di lotta e resistenza non perché fosse l’unica possibile, ma di sicuro era l’unica che ci permetteva di vivere le nostre vite in relazione all’epoca storica in cui eravamo inseriti. C’è anche però da dire che in quegli anni esisteva un rapporto decisamente più organico tra il mondo e le nostre vite, cosa che invece oggi si riscontra assente in tutti i campi dell’umana esistenza. Io penso che oggi la resistenza parta dal non farsi travolgere dal quotidiano che satura le nostre preoccupazioni. 

Attenzione però, questo non deve essere un processo di ascesi personale: deve essere un processo che passa per produrre modi di vita, legami ed esperienze diversi in cui poco a poco noi saremo “capabili” di vivere essendo toccati dal mondo e  non idealmente separati da quest’ultimo. Mi spiego meglio: innanzitutto ho parlato di guerriglia contro la polizia, i militari, ma la verità è che non abbiamo mai sparato un colpo contro la democrazia. Il nostro modo di lotta, la questione della guerriglia, aveva una dimensione tragica perché io , mia moglie, mio fratello abbiamo preso la decisione di portare avanti  la resistenza armata accettando il fatto che le nostre vite fossero attraversate dall’epoca in cui vivevamo, che non ci fosse separazione tra di esse. Beh  io dico allora che RESISTERE oggi, significa soprattutto creare esperienze di luoghi dove la gente possa sperimentare il legame con la propria epoca, dove si smetta di parlare delle cose che sembrano urgenti, per parlare delle cose che sono davvero importanti. Dove si riesca a resistere alla trappola dell’urgenza, per dedicarsi alla creazione di un luogo pratico dove costruire un punto di vista differente, dove le persone possano sperimentare che il mondo non è solo quella cosa lontana che si vede alla tv ma esiste qui ed ora, e noi ne facciamo parte. Dobbiamo provare ad essere adulti e non aspettare che qualcuno ci salvi.

Piacere sono Vittoria.
Beh come si vede dalla platea non siamo solo studenti, ma ci sono anche molti di noi che provengono  dal mondo del lavoro e che sanno molto bene di lavorare con persone che sono un po’ “schiacciate”. Il problema è che queste  persone stanno nella gravità tecnica, non nella tragedia, il problema è che noi operatori sociali stiamo nella gravità al loro fianco, ma  la vediamo solo noi.  Nonostante il nostro lavoro consista in parte nel fare emergere queste situazioni all’attenzione di tutti,  è un compito che risulta sempre più  difficile.  Facciamo un lavoro che rischia sempre un po’ di raccontarsi solo a sé da sè, non passa oltre: chi ci conosce è perché ha un ragazzo seguito da un educatore,  o la persona disturbata che vive in casa e che quindi ci vedono all’opera. Non a caso ciò coincide anche con i livelli dei nostri salari che rimangono molto bassi. Bhè se c’è una domanda che vorrei farti è proprio questa: come fare sì che il nostro lavoro diventi più visibile, emerga di più ??

Sempre di più il mondo va verso la complessità, perciò appare anche sempre più chiaro come sia impossibile creare oggi un modello di emancipazione valido globalmente. Penso che se siamo in grado oggi di incontrare persone colpite da questo disagio, che abbiano voglia e siano “capabili” di assumere la sfida di capire la propria situazione, capire che cosa voglia dire agire, se siamo capaci di trovare un piccolo gruppo di poveri, di esclusi, di operatori sociali che abbiano voglia insieme di dire BASTA, adesso noi proviamo a capire la nostra situazione, la vogliamo contestualizzare e vogliamo  proporre concretamente le cose che dobbiamo fare.. se siamo in grado di fare tutto ciò,  la resistenza ha inizio. E’ un po’ quello che è successo in Argentina con la crisi: si sono creati dei mondi di solidarietà diversi, legali e non (ma noi in fondo dobbiamo seguire solo la legittimità che a volte ahimè, coincide con l’illegalità).

Dobbiamo essere in grado di produrre queste esperienze minoritarie in cui la gente sia capace di uscire dalla gravità tecnica per arrivare alla dimensione tragica e cioè contestualizzata al problema. Se non siamo in grado di fare ciò, la catastrofe è inevitabile. Non dobbiamo promettere nulla alle persone, non dobbiamo attendere nulla!  Oggi la nostra situazione sociale è così, se non siamo in grado di uscire dal circolo vizioso dell’impotenza creando queste piccole realtà locali dove poco a poco la gente è in grado di raggiungere una maggiore consapevolezza sulle proprie vite in relazione all’epoca storica, il disastro è inevitabile. La sfida è grande perché si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale: noi siamo formati per arrivare in una realtà con competenze precise per vedere le situazioni gravi ed in quanto tecnici, risolverle con il metodo migliore. La rivoluzione sta proprio in questo!!

Non dobbiamo più considerare l’extracomunitario senza documenti, escluso dal campo profughi come una situazione grave chiusa in sé. Questo postura mentale è ciò che segna la frontiera tra l’oppressione ed l’emancipazione. Dobbiamo assumere che la sua situazione è tragica, che riguarda anche me, è la mia situazione. Si tratta di produrre  micro luoghi di senso, di resistenza, di altro modo di rapporto verso la vita.  Se riusciamo a fare ciò la resistenza comincia. E’ difficile perché significa uscire dal luogo della normalità ideale per assumere il luogo della normalità dipartita. E’ una grande frontiera, ma è quella che mi dice che non sono un tecnico che si occupa di cose gravi; sono una persona che invita l’altro ad assumere che la nostra situazione debba essere vissuta e capita dal punto di vista del senso TRAGICO  DEL LEGAME.

Sapete dobbiamo renderci conto che l’educatore  non è un ALTRO nella situazione di apartheid sociale: nei paesi civilizzati  l’operatore sociale non è che il “dispositivo” pensato all’interno di una società per trattare le situazioni di disagio.

Una volta c’era la dimensione tragica che faceva sì che IL PROBLEMA venisse un po’ percepito da tutti. Però c’è anche da dire che esisteva delle ideologie che legavano gli uomini come un collante fortissimo, e soprattutto un’organizzazione del lavoro fisico che permetteva di vedersi continuamente, di coltivare rapporti personali che poi duravano anche al di fuori dei luoghi di lavoro. Oggi questi due elementi non esistono più e creare connessioni così forti tra le varie persone, considerando anche i livelli di precarietà altissimi di questi tempi, diventa sempre più difficile. Tant’è che le uniche cose forti sono quelle un po’ virtuali create dai mezzi di comunicazione. Sono mie riflessioni che mi piacerebbe discutere insieme..(Roberto)

Tu hai parlato della scomparsa di due elementi: una forte ideologia e luoghi fisici come condizione per produrre legame. In particolare modo la scomparsa delle ideologie forti non è stato un incidente di percorso, ma il corollario inevitabile della fine di quell’epoca che siamo soliti nominare Modernità. L’ideologia è infatti sempre un racconto che accompagna un modo di rapporto reale con il mondo, non è mai un qualcosa di immaginario ma una scienza che sta nella realtà, coincide sempre con un modo reale di organizzare il mondo.. Sinceramente, lo ammetto,  non mi piace molto la storia della fine delle ideologie, mi pare un po’ debole. Mi pare un racconto che evita di rendersi conto del fatto che non ci troviamo in un momento storico e antropologico incredibile, non ci troviamo alla fine di un epoca, intesa come un rapporto reale con il mondo, ed il comincio di qualcos’altro.. in più il nostro lavoro non è reinventare il mondo, occuparsi delle ideologie.  Sono tutte cose che emergono da sole, che accompagnano la pratica. Il nostro lavoro è produrre empiricamente il luogo del legame.. ed effettivamente ora dobbiamo ripensare a quali siano questi luoghi dove riterritorializzare la vita che è diventata assolutamente virtuale, che passa dalla tv che passa da internet. L’uomo post moderno è un uomo pieno di informazioni ma nella maggior parte dei casi, senza l’esperienza diretta delle cose: il meccanismo di impotenza di cui stavamo parlando prima appunto.

Mi spiego meglio. In questa ottica parlare di riterritorializzazione della vita, significa pensare di creare dei luoghi in cui  poter esperienziare un po’ di più la mia vita, sperimentare, riconnettere la vita al territorio cui appartiene. Attenzione non sto parlando necessariamente di un luogo fisico, ma del territorio del legame, fatto da persone che condividono una stessa realtà.  La territorializzazione passa  dal rendersi conto di che cosa sono attraversati i territori.

Ovviamente questo luogo non può necessariamente essere internet: è uno strumento di grande aiuto per ciò che riguarda la gestione della rete di organizzazione. Ma la rete di organizzazione vera e propria deve essere concreta con le persone che sono colpite e toccate per questa realtà.

Se vogliamo operare questo cambiamento bisogna partire da una riflessione sul proprio lavoro. Nella nostra normalità dobbiamo creare un ruolo di resistenza, non  di rabbia ma di alternativa.

Il giorno in cui dalla Regione ci hanno comunicato la mancanza dei soldi per il finanziamento delle attività integrative del Corso in Educazione Professionale, mancavano 5 giorni all’inizio delle lezioni. In questo modo ci hanno impedito di organizzarci per trovare soluzioni alternative. In fondo chi governa non ha la consapevolezza del dramma che le proprie azioni possono creare, perciò vive la faccenda con un estrema superficialità, non c’è empatia. La funzionaria regionale che ci ha comunicato la nefasta notizia, mi ha detto esplicitamente: “Professore non si preoccupi in fondo è giovane. Provi ad usare la fantasia!”. La prima reazione fu una rabbia tremenda, poi pensandoci bene ho capito che mi aveva dato davvero un buon consiglio.  Abbiamo la possibilità di dimostrare che possiamo davvero creare qualcosa di nuovo a partire da questa situazione di crisi. Badate bene, non sto parlando solo di fantasia e creatività, ma anche e soprattutto di impegno, tempo ed energie da investire. Si tratta di darci il tempo per ripensare ai luoghi ed alle persone con cui viviamo per dargli un senso nuovo; partire da pezzi che ci sono già per renderli attivi in una maniera differente.

Di sicuro non dobbiamo creare piccoli mondi ideali ed alternativi di resistenza che piano piano si riproducano fino a creare un mondo diverso. Questa è una bugia enorme. Non possiamo fare nulla per invertire la realtà e dobbiamo avere il coraggio di ammettercelo. Oggi in questa epoca oscura, l’unica maniera possibile di lavorare per la libertà è creare dei piccoli luoghi alternativi di resistenza, che impediscano all’oscurità di guadagnare tutto. Io in quanto operatore sociale devo occuparmi della realtà ritenendomi parte di essa. Badate bene che questa nostra epoca è sì oscura e pericolosa, ma può essere anche molto gioiosa e  molto interessante,  perché è soprattutto nelle epoche oscure che si può costruire in profondità ed in complessità.  Questo però solo per chi è in grado di assumere la  responsabilità  di riflettere sulle maniere possibili per VIVERE, e non solo per sopravvivere . La responsabilità di assumere la conoscenza del contesto che è fondamento della mia vita. Senza considerare le proprie vite come attraversate ed immerse nell’epoca storica in cui viviamo,  non possiamo arrivare da nessuna parte. La vera resistenza passa dalla creazione in forme molteplici, di legami di solidarietà. Significa creare e sviluppare contropoteri e controculture. Significa creare qui ed ora, relazioni e forme alternative da parte di collettivi, di gruppi e di persone che attraverso una militanza che coinvolga l’esistenza (e qui proprio per sottolineare il carattere serio dell’impegno concreto), sappiano andare oltre il capitalismo. Immaginare scenari diversi. Proprio per questo anche io penso che la fantasia e la creatività siano  elementi necessari, anche se ovviamente non sufficienti.

Ho trovato molto interessante questo tuo ultimo intervento. Io sono un operatore sociale e mi viene da chiedermi: di cosa mi devo occupare allora? Della questione economica, del mio lavoro, dei significati profondi di quest’ultimo? Sai penso anche alle differenti strategie che si possono mettere in atto.  Parlando con il professor Bianchini ci siamo detti: facciamo lo stesso lezione anche se i fondi non arrivano; diamo a questa azione un significato politico. Ovviamente non si può lavorare gratis all’infinito ma penso che in questo determinato periodo storico, con questi presupposti, anche come atto dimostrativo sarebbe importante portare avanti un’iniziativa di questo tipo.  Dico che sarebbe importante perché io ho l’idea che dovrebbe essere la Cultura a prendere in mano le redini del gioco e sovvertire un po’ questo rapporto di forza economia/cultura. Non vorrei stravolgere i principi marxisti della struttura e della sovrastruttura, ma penso davvero che in determinati periodi storici, sia compito della Cultura lavorare per creare legami sociali, questo É un modo per creare legami sociali. Io faccio questa proposta per iniziare a rispondere alla domanda che si pone il problema sul che cosa fare.  Bhè iniziamo a fare lezione lo stesso, anche senza soldi. Non ci pagano, PAZIENZA! Magari in un secondo momento ci arriveranno i soldi, magari no. Io farei questa proposta. Che dite voi?? (Francesco Garzone)

Ora do un consiglio da vecchio combattente. In ogni tempo per affrontare un potere che attacca, bisogna rispondere nel luogo in cui non siamo in una condizione di debolezza. Per esempio se l’attacco è sul piano economico,  rispondere con una pianificazione economica significa rimanere in una posizione di debolezza. In America Latina gli indiani dicono: noi siamo morti perciò non abbiamo nulla da negoziare con voi. Questa è una posizione che fa una paura terribile al potere perché è come dire che non abbiamo limiti, non abbiamo nulla da perdere. Cosa vuole dire io sono morto? Vuole dire che non ho assolutamente voglia di organizzare la mia reazione nell’asse in cui tu sei potente, voglio organizzarla nell’asse in cui IO sono potente. Tu mi attacchi sul piano economico.. bene!! Vorrà dire che io non mi occuperò più di soldi.  Vogliamo parlare solo della vita. Non siamo d’accordo con questo ordine, allora creiamo questo luogo di resistenza in cui la nostra rivendicazione non lascia nelle mani dell’altro la possibilità di realizzare, assolvere ed  appagare questa nostra necessità.  La nostra domanda deve assolutamente eccedere l’ALTRO. Equivale a dire che l’altro  non ha la possibilità di possederti. Questo è il senso della nuova radicalità, e senza questa idea, non siamo in grado di ottenere nulla!!

A parte grazie, perché è sempre bello ascoltare certe parole! Io volevo raccontare un’esperienza. Sono Erica e non a caso, sono  qui con buona parte della mia equipe di lavoro.  Sono fermamente convinta che la creazione di questi luoghi di condivisione sia davvero possibile, anche qui in Italia.. ed allora è giusto e importante anche dirselo che tutto ciò è possibile, per  non  finire sempre a raccontarci quello che ci fa arrabbiare e mai quello che ci può far sperare un po’ di più.  Lavoriamo in un centro diurno per persone con problemi psichiatrici oramai da 15 anni. Ne abbiamo passati davvero tanti a chiederci come mai, nonostante le persone con cui lavoravamo fossero le  ultime delle ultime, non si consideravamo minimamente tra di loro: se uno aveva un problema gli altri non lo vedevano nemmeno. Ad un certo punto è successa una microrivoluzione. Un po’ per gioco, un po’ per sfida, un po’ perché era sempre più complesso il nostro lavoro,  essendo sempre meno operatori e sempre più utenti abbiamo proposto questa esperienza che abbiamo chiamato giornata all’incontrario. Per cui per un giorno abbiamo invertito i ruoli: noi abbiamo fatto gli utenti, e loro hanno gestito tutto il giorno la struttura in autonomia, hanno gestito le attività e fatto tutto ciò che noi facciamo quotidianamente. Questo è successo un anno fa. Al di là del fatto che siamo arrivati a fine giornata capendo di essere pieni di pregiudizi (noi che pensavamo di avere menti così aperte), al di là del fatto che i nostri ragazzi hanno fatto un lavoro meraviglioso, sono cambiate delle cose. E’ cambiato il modo di relazionarci gli uni con gli altri, sono cambiati i legami. La giornata all’incontrario non esiste più o meglio, è diventata una pratica quotidiana, una sorta di spazio  permanente in cui lavoriamo insieme su dei temi significativi:  come si costruiscono le relazioni, come si fa a stare meglio.. ma sempre INSIEME. E da questi spazi le nostre belle etichette per cui io sono l’operatore, sono quello che ne sa e ti dico come si deve fare, non esistono più.  Stiamo male tutti insieme, facciamo fatica tutti insieme e tutti insieme cerchiamo di costruire una maniera per stare un po’ meglio.  Sono cambiate anche le relazioni tra di loro:  sempre più spesso passiamo per i corridoi e sentiamo gruppetti di persone che si chiedono come sta l’altro e come possono fare per darsi una mano.

 Ora un’altra cosa su cui ci interroghiamo e come fare a creare un’uscita dallo spazio del centro diurno. Sai tutti stanno bene però non riusciamo mai a farli uscire.  Beh oggi ci dicevamo che forse non ha senso, forse è giusto così.. forse allora la prospettiva può essere quella di aprire le porte e di fare entrare le persone.

Comunque il senso del mio intervento è portare una testimonianza concreta del fatto che ci si arrabbia, le cose sono difficili da conquistare, ma creare luoghi di resistenza di questo tipo è possibile, anche se siamo in Italia.

Ci tengo a fare una piccola parentesi che mi ha suggerito il tuo intervento. Spesso la tristezza di quando facciamo esperienze alternative sta nella comprensione del fatto che il cambiamento dei rapporti di forza non è oggi possibile. Ciononostante dobbiamo accettare questa condizione, continuare a costruire lentamente e non arrenderci. Dobbiamo assumere che la resistenza è una cosa seria e non dobbiamo cadere nel pessimismo narcisista di chi voleva cambiare il mondo e, prendendo coscienza di quanto nulla sia mutato, rinuncia alla sua lotta . Un po’ come quei militanti sinistroidi che vedendo infranti i loro sogni di cambiamento, passano dalla parte del capitalismo. Bè questa è una forma incredibilmente superficiale di intendere l’attivismo. Tutto ciò per dire che questa plusvalenza di tristezza è causata proprio dal nostro narcisismo, non dalla complessità della realtà. Dopo di questo in rapporto alla psichiatria tutto ciò assume una sfumatura interessante.

La sofferenza psichica ha un germe di dissidenza. Cioè è la maniera che molte persone trovano per dimostrare il loro dissenso rispetto all’ordine della vita.  Perciò è molto importante non comportarsi come un tecnico che va a schiacciare questo dolore. E’ come il lavoro che ciascuno di noi deve fare nella propria vita: assumere questo sentimento senza volerlo a tutti i costi eliminare. Quello che noi in psichiatria diciamo sempre alle persone con cui lavoriamo, è che non ci sono alternative: o una  cosa la facciamo insieme oppure non facciamo nulla. E’ importante che entrambi percepiamo di essere nella stessa situazione. Chiedere all’altro di offrirci passivamente la sua sofferenza perché noi, come tecnici possiamo occuparcene, vuole dire riprodurre e approfondire il meccanismo d'impotenza e dipendenza di cui sino a qui abbiamo parlato.  Ci deve essere un momento in cui insieme si accetta la presenza di questo sentimento negativo, cercando di capire da che cosa sia provocato; non dobbiamo eliminarlo come se fosse tutto negativo, ma capire qual è la sua origine. In questo mondo che va verso l’apartheid, dobbiamo eliminare le differenti etichette. Dobbiamo iniziare a percepire quanto tutti siamo parte della stessa realtà, e creare dei luoghi in cui “imbarcarsi con l’altro”, rivendicando spazi alternativi di resistenza all’oscurità della nostra epoca.

Beh che dire.. forse dopo tutti i seminari che abbiamo fatto sulle competenza che deve avere un educatore professionale, stiamo iniziando a riflettere sulla cosa giusta, ossia quale sia il senso di questo lavoro qui ed oggi!!

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