lunedì 27 febbraio 2012

Tesi di Elisa Casetta (Capitolo 4 -prima parte-): La ricerca educativa

Quinto appuntamento con la tesi di Elisa Casetta.
In questo capitolo Elisa affronta il tema della ricerca in educazione; vi proponiamo la prima parte del capitolo, e per la seconda parte vi diamo appuntamento a lunedì prossimo.
Buona lettura!



CAPITOLO 4

La ricerca educativa
La metodologia della ricerca educativa e il metodo qualitativo

La metodologia della ricerca è un processo che mira alla conoscenza di fenomeni, eventi, situazioni, comportamenti, opinioni, attraverso l'organizzazione rigorosa di percorsi e strategie. Tale processo è solitiamente suddivido in fasi che, lungi dall'essere rigide e chiuse, presentano un alto grado di flessibilità e attenzione alle informazioni di feedback che si pongono costantemente all'attenzione del ricercatore.

Gli strumenti utilizzati nel processo di ricerca possono suddividersi in strumenti procedurali, strumenti di rilevazione dei dati e strumenti di analisi e interpretazione dei dati stessi. Per l'educatore è importante avere strumenti per fare ricerca, il suo lavoro è caratterizzato dalla necessità di conoscere situazioni, contesti e soggetti in modo dettagliato per progettare interventi mirati e specifici.

Tutte le ricerche nascono da una curiosità, da un problema, da una domanda, procedono a una raccolta di dati e li valutano criticamente per dare una risposta alla domanda iniziale.

Ogni tipo di ricerca richiede una scelta accurata di metodi di indagine predefiniti e adeguati al trattamento del problema che intende affrontare. L'importante in ogni ricerca, sia essa di tipo qualititivo, che quantitativo è che cosa si intende cercare, perchè questo impone una o l'altra delle metodologie. La ricerca educativa si distingue in ricerca quantitativa e ricerca qualitativa.

La ricerca quantitativa è considerata quella metodologia di ricerca basata essenzialmente su dati statistici attraverso cui è possibile trarre dati oggettivi. Gli strumenti usati nella ricerca quantitativa sono standardizzati e rigidi. Nella ricerca quantitativa, si classificano le caratterisitiche e si costruiscono modelli statistici, allo scopo di spiegare ciò che si è osservato. La raccolta dati nella ricerca quantitativa è caratterizzata da un basso grado di interazione con l'intervistato con conseguente minor rischio di contaminazione dei dati da parte del ricercatore.

Una caratteristica essenziale dell'analisi quantitativa è il formalismo delle procedure: la raccolta, il trattamento dei dati, l'impiego della matrice di dati e l'uso della statistica seguono dei protocolli definiti e facilmente replicabili. Questa elevata formalizzazione consente al ricercatore di rilevare e immagazzinare una gran quantità di informazioni con strumenti altamente standardizzati. Il ricercatore usa strumenti come questionari o altro materiale per acquisire dati numerici. I dati quantitativi sono più efficienti e validi per testare delle ipotesi, ma possono mancare di dettagli di tipo contestuale e il ricercatore tende a rimanere oggettivamente separato dall’argomento della ricerca.

Esistono temi, argomenti però, propri della ricerca educativa che non possono, per loro natura, essere analizzati in modo quantitativo, ma richiedono un approccio descrittivo e narrativo. Questo non implica la negazione del rigore nel progettare la ricerca, formulare le ipotesi e scegliere le procedure per la raccolta dei dati.

La ricerca qualitativa infatti ha per fine la "comprensione dei fenomeni sociali, individuali e situazionali attraverso l'attenzione al particolare (...). Inoltre questi fenomeni non sono misurabili: in quanto una credenza, una rappresentazione, uno stile personale di relazione, una strategia di fronte ad un problema, una procedura decisionale sono le caratteristiche specifiche dei fatti umani". La ricerca qualitativa si caratterizza per l'assenza della matrice dei dati, la non ispezionabilità della base empirica e il carattere prevalentemente informale delle procedure di analisi dei dati. E' un tipo di ricerca in cui non si fa ricorso alla misurazione; importante è l'interpretazione logica, intuitiva la comprensione emotiva dei fenomeni.

E' adatta per i piccoli campioni e per studi in profondità di alcuni argomenti. La ricerca qualitativa si differenzia da quella quantitativa, perchè permette di lavorare su molte variabili attraverso l'analisi di pochi casi e si basa sul concetto di interazione tra il ricercatore e il soggetto in un'ottica di ricerca-azione. La ricerca qualitativa si presta ad essere applicata a situazioni micro-relazionali, reali, quindi osservabili e affrontabili solo da vicino.


In queste situazioni il ricercatore deve immergersi, non rimanere spettatore impassibile, conscio anche che la sua soggettività andrà ad influire sulla rilevazione dei dati che vuole analizzare.

E questo deve essere considerato come una risorsa, perchè in grado di rilevare la presenza di elementi che sfuggono ad ogni determinazione di tipo oggettivistico. Il ricercatore che si avvale di un'analisi qualitativa, opera per raccogliere impressioni, rappresentazioni individuali o collettive di specifici fatti ed esperienze umane e lo scopo dell'analisi è portare alla luce fatti non immediatamente visibili. Egli in questo senso non è interessato al numero dei casi, ma all'enucleazione del maggior numero di aspetti e informazioni ricavabili dal caso singolo o contestuale.

La ricerca qualitativa, resta comunque sempre aperta a variazioni e ad aggiustamenti, che possono intervenire strada facendo.

In tal senso il ricercatore qualitativo è consapevole del fatto che impara nel corso della ricerca. Quindi un'ulteriore caratteristica della ricerca qualitativa è costituita dalla sua inevitabile valenza trasformativa. 

Non solo perchè si fa ricerca qualitativa per scoprire che cosa è possibile cambiare, ma perchè l'inclusione del ricercatore cambia di fatto la situazione ingerendo nuovi equilibri o squilibri.

Per ricerca si intende il processo di costruzione del dato basato sulla richiesta di informazioni a coloro che le posseggono, con domande strutturate o libere. All'interno dell'insieme dei diversi strumenti che costituiscono questo processo, quelli maggiormente coerenti con il contesto in cui l'educatore opera sembrano essere l'intervista e il questionario. La conoscenza della metodologia della ricerca è importante per l'educatore sia che voglia vestire l'abito del ricercatore, sia che voglia arricchire il proprio bagaglio culturale e professionale, con un metodo che può avere positive e concrete ricadute nella pratica lavorativa.

Le tipologie delle domande sono in stretta relazione alle modalità di risposta previste, anzi, la strutturazione di quest'ultime influisce sulla stessa denominazione delle tipologie di domande.

Possiamo avere, domande aperte e domande chiuse, con relative risposte aperte o chiuse.


Una domanda a risposta chiusa possiede un alto grado di strutturazione, mentre una domanda a risposta aperta possiede un basso grado di strutturazione e maggiore è la strutturazione, minore sarà la discrezionalità della ricercatore e la libertà di risposta dell'intervistato.

Il concetto di discrezionalità del ricercatore riguarda la possibilità di interpretare e personalizzare le risposte dell'intervistato.

Le domande chiuse permettono agli intervistati di scegliere tra alternative prefissate di risposta, mentre le domande aperte non prevedono queste alternativa, ma si lascia ampio spazio di libertà di scrittura all'intervistato.

Il linguaggio usato nella formazione delle domande esercita una grande influenza sulle risposte ricevute. È necessario porsi il problema del livello di difficoltà delle parole o espressioni utilizzate, facendo riferimento al target degli intervistati (età, sesso, status sociale ecc..).

In generale il linguaggio deve essere il più possibile privo di ambiguità semantiche e adeguato anche al contesto che si va ad investigare, avendo come obiettivo primario la comprensibilità delle domande da parte dell'intervistato. Gli strumenti della ricerca possono essere ordinati in base al loro grado di strutturazione, quindi in base al ricorso o meno alla predifinizione delle domande; ciò consente una maggiore o minore possibilità che il ricercatore dà all'intervistato di argomentare le risposte. Possiamo così analizzare gli strumenti di cui fa uso la metodologia della ricerca, seguendo lo schema riportato da S. Crispoldi (2008):

Questionario

Intervista
(semi-strutturata e strutturata)

Intervista biografica
(non strutturata)

Intervista di gruppo
(focus group)

Il questionario è uno strumento composto generalmente da una serie di domande a ognuna delle quali è collegata una serie predefinita di risposte. Questo consente di ottenere agevolmente informazioni su un preciso tema, coinvolgendo un grande numero di soggetti.

Nel questionario chiuso, le risposte sono codificate e prefissate e non vi è possibilità di rispondere in modo diverso.


L'alta strutturazione consente di analizzare il dato con l'ausilio di tecniche statistiche, ma d'altra parte la natura quantitativa dello strumento limita la possibilità di cogliere particolari aspetti del problema e una più completa comprensione della realtà in esame.

Il questionario aperto invece, prevede domande aperte con risposte aperte, in modo da lasciar spaziare la risposta dell'intervistato.

Questo tipo di strutturazione mira più ad osservare un atteggiamento, un fatto sociale, per scoprirne le posizioni, le idee e le emozioni del soggetto rispondente. Il questionario dev'essere sempre accompagnato da una lettera di presentazione, che spieghi la finalità dell'indagine, rassicuri l'intervistato sul rispetto della sua privacy e sottolinei l'importanza di risponedere accuratamente in modo veritiero al questionario.

È importante, inoltre, curare la formulazione delle domande e il linguaggio, che dev'essere semplice e privo di ambiguità.

L'intervista
può essere considerata come uno scambio verbale fra due persone, una delle quali, ponendo delle domande, è interessata a raccogliere delle informazioni o delle opinioni su un particolare tema.

Le interviste qualitative sono, dunque, conversazioni "estese" tra il ricercatore e l’intervistato, durante le quali il ricercatore cerca di ottenere informazioni quanto più dettagliate e approfondite possibili sul tema della ricerca. Al pari delle altre tecniche qualitative, l’obiettivo primario dell’intervista è accedere alla prospettiva del soggetto studiato, cogliendo le sue categorie concettuali, le sue interpretazioni della realtà e i motivi delle sue azioni. Anche in questo caso troviamo un grado di strutturazione dell'intervista; nell'intervista semi-strutturata si ha a disposizione una serie di item che devono essere affrontati, con domande specifiche, che possono essere aperte o chiuse. L'intervistatore è libero di bilanciare il colloquio come vuole, adattandosi alla situazione di intervista e alle caratteristiche del rispondente. Infatti, per quanto sia presente una traccia fissa e comune per tutti, la conduzione dell’intervista può variare sulla base delle risposte date dall’intervistato e sulla base della singola situazione (l’intervistato può anticipare alcune risposte, l’intervistatore può dover modificare l’ordine delle domande ecc.).


L’intervista strutturata prevede, invece, un insieme fisso e ordinato di domande aperte che vengono sottoposte a tutti gli intervistati nella stessa formulazione e nella stessa sequenza, l’intervistato è lasciato libero di rispondere come crede. Il fatto che le domande vengono poste a tutti nello stesso ordine rende l’intervista poco flessibile e adattabile alla specifica situazione; da questo punto di vista essa rappresenta una sorta di mediazione tra l’approccio quantitativo e l’approccio qualitativo, una tecnica "ibrida" che raccoglie informazioni, da un lato, in modo standardizzato (le domande) e, dall’altro, in modo aperto e destrutturato (le risposte).

L’intervista biografica
poi, è un tipo di intervista libera che si basa sulla storia di vita del soggetto. Una storia di vita è un insieme di eventi, esperienze e strategie relativi alla vita di un soggetto, organizzato in forma cronologico-narrativa, che il soggetto trasmette all’intervistatore in forma spontanea o pilotata, e che il ricercatore può integrare con altre fonti, quali documenti, narrazioni o testimonianze di altri soggetti.

Scopo delle storie di vita è la comprensione di motivazioni, intenzioni, vissuti, sentimenti, credenze dei soggetti, la ricostruzione della storia del gruppo di cui i soggetti fanno parte e dei processi sociali sottesi al gruppo stesso.

L'intervista può svolgersi anche fra più persone, attraverso il focus group, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all'atteggiamento personale nei confronti di uno specifico tema. Le domande sono fatte in un gruppo interattivo, in cui i partecipanti sono liberi di comunicare con altri membri del gruppo ed è importante che l'intervistatore abbia competenze adeguate per condurre questo tipo di intervista, perchè oltre a saper ascoltare, deve saper incoraggiare la persona ad esprimersi, saper condurre la discussione all'interno del gruppo e intervenire in modo corretto all'interno di esso.



4.2 La scrittura in educazione

Ho scelto di effettuare una ricerca sulla figura dell'educatore perchè nella mia breve esperienza, mi sono resa conto di quanto l'educatore professionale occupi un posto marginale all'interno delle politiche sociali e nel sistema dei servizi.

Parlando con alcuni educatori, in diversi ambiti, dalla formazione, al tirocinio, al lavoro e con diverse esperienze di vita e lavorative, l'idea emersa è quella di una professione poco visibile, invisibile si potrebbe dire, una professione non riconosciuta in quanto tale, a livello sociale, professionale ed economico. Inoltre, spesso mi sono resa conto della difficoltà degli stessi educatori di parlare del loro lavoro, di ciò che fanno concretamente, nella quotidianità, di definirsi in quanto ruolo.

Mi capita spesso, quasi sempre, di trovarmi di fronte a questo tipo di conversazione:
"Che lavoro fai?"
"L'educatrice"
"Ah....tipo maestra?"

"No..."

Oppure: "Ah.. l'educatrice, quindi che fai?"

e in questo caso mi accorgo di non essere nemmeno io in grado di definire in modo soddisfacente cosa e come lo faccio.

Sicuramente la non completa definizione dal punto di vista normativo-giuridico ha fatto sì che questa professione rimanesse ignorata e marginale rispetto alle altre.

Un altro motivo per cui l'educatore è poco riconosciuto, è perchè noi in primis non ne parliamo a sufficienza, siamo troppo presi a volte proprio dal nostro lavoro, dalle difficoltà che quotidianamente ci porta ad affrontare, dalla mancanza di risorse che a volte ci fa rinunciare ad un progetto, dal bisogno di "staccare" usciti dal turno, che non dedichiamo spazio al "portare fuori" la nostra professione e questo contribuisce a una sorta di isolamento di essa (molte iniziative si muovono in questo senso ad esempio i convegni sull'importanza della scrittura, dell'autobiografia e della


narrazione nel lavoro educativo per "lasciare traccia", "fare memoria" della nostra professine..). Ciò che si constata da tempo ormai è che, in mancanza ancora di un'immagine definita e vissuta nella società di questa professione, gli educatori vengono spesso considerati professionisti di serie B, perchè si occupano di persone di serie B, si trovano spesso a condividere confusamente l'identità del soggetto di cui si occupano perchè subiscono la discriminazione che la parte tradizionale della società riserva ancora ai soggetti in difficoltà.

La miglior costruzione e definizione della categoria professionale dovrebbe concorrere a contrastare in parte anche tale dinamica.

Così mi sono proposta di capire cosa pensano gli educatori riguardo sé stessi e la loro professione, quali possano essere i punti di forza e di debolezza e cosa si potrebbe fare per potenziare il lavoro dell'educatore professionale. Ho scelto di sottoporre dei questionari a risposta aperta agli educatori, per far sì che si prendano tutto il tempo necessario per rispondere alle domande, per far sì che si sentano liberi di esprimersi e inventare nuovi modi di descrivere la loro professione.

L'idea iniziale era quella di intervistare un gruppo di educatori, ma la scarsità di tempo a disposizione non mi ha permesso di condurre questo tipo di ricerca. Riflettendo sulla modalità da utilizzare poi, sono giunta alla constatazione dell'importanza della scrittura nel nostro lavoro, come mezzo per narrare la propria esperienza di vita e lavorativa, le proprie emozioni, per fare memoria e creare un'identità che si fermi su quelle righe, che sia lì e di cui si possa disporre ogni volta che si vuole.

Ascoltare, osservare, raccontare e scrivere sono parti importanti del lavoro educativo. Scrivere è il modo per ripensare la pratica, far sì che l'esperienza quotidiana diventi un patrimonio sedimentario.

La scrittura, richiedendo una certa distanza tra i fatti, una differente "messa in ordine" dei dati apre la strada ad elaborazioni che attivano nuove strategie di pensiero ed azione, nuove forme di emozione e conoscenze, in un processo di pratica-riflessione-pratica che può facilitare il passaggio dalla semplice costatazione dei fenomeni, recuperando la dimensione di ricerca e la possibilità di uno scambio costruttivo con i diversi ambiti di ricerca.

S
crivere del proprio lavoro, per l'educatore, è costruire una forma di avvenimenti, è trovare il senso della continuità tenendo insieme le cose e le idee, definendo e mantenendo una posizione consapevole. Questo tipo di scrittura mette sotto forma intenzionale l'esperienza professionale e favorisce la realizzazione di uno strumento efficace di incremento di competenza e di pensiero. Come propone Cocever E. (1996) l'importanza della scrittura è data dal trovare o dare un senso al proprio lavoro, trasformando il "fare esperienza" in "avere esperienza", per ricavare da quest'esperienza una conoscenza e un sapere forte, che rimanga tracciato nel tempo, per avviarsi verso un collegamento tra lavoro di base e lavoro di ricerca. Il saper scrivere è legato a fattori che possono accompagnare l'acquisizione di competenze e questo è possibile solo se alla scrittura viene attribuito un senso professionale e profondo e non meramente burocratico. Gli educatori, nel loro lavoro scrivono, relazioni sui casi, diari di lavoro, verbali, programmazioni, progetti... questi scritti richiedono tempo e fatica e spesso si ha l'impressione che scrivere risponda all'adempimento di un dovere, piuttosto che come occasione per elaborare l'esperienza.

Ancora Cocever E. afferma che la scrittura come strumento di mediazione nei confronti dell'esperienza è un elemento di grande importanza per la vita sociale e per la realizzazione professionale di chi è operatore.

Ecco uno dei motivi per cui ho deciso di far scrivere gli educatori, per inventare e trasformare la propria esperienza in parole, per poterle rileggerle e riconoscersi in quelle parole e prendere reale consapevolezza di sè, per iniziare un processo -anche se limitato- di consocenza e riflessione sulla professione.

"La scrittura innalza il livello di consapevolezza; per vivere e comprendere bene, abbiamo bisogno non solo della prossimità, ma anche della distanza, questa scrittura regala alla mente umana in modo unico, come nient'altro può fare"
(W.J.Ong 1986).


 

 

 

La ricerca condotta si può comunque avvicinare ad una sorta di intervista, vista la possibilità di narrare della propria vicenda lavorativa ed esperienziale senza risposte rigide e strutturate, ma avendo solo una linea giuda e lasciando spazio agli intervistati di esprimersi nel modo da loro prediletto. Per R. Atkinson (2002) la produzione di questo materiale ha alla base una modalità di scambio dialogico tra il ricercatore e il soggetto che vive l'esperienza, che può essere definita "intervista narrativa: un colloquio finalizzato alla raccolta di storie in cui il ricercatore ha il ruolo di intervistatore e il soggetto di intervistato". Il termine "intervista narrativa" è da preferire a quello di "intervista biografica", in quanto quest'ultima mira a raccogliere l'intera biografia dell'individuo, mentre la prima solo uno o più aspetti importanti della sua storia. Sempre R. Atkinson afferma che il fatto di raccontare la nostra vicenda personale ci permette di essere ascoltati, riconosciuti e apprezzati dagli altri ed è attraverso il racconto che diamo una prospettiva e un significato alla nostra esperienza.

La narrazione biografica porta alla luce aspetti nascosti dell'esperienza del soggetto e permette di prendere consapevolezza sul proprio vissuto e sul proprio operato in quel dato contesto. In questo senso affermo che la ricerca condotta si avvicina a questo approccio, perchè la finalità che ha mosso l'indagine è stata anche quella di far giungere consapevolezza agli educatori sulla loro professione.

lunedì 20 febbraio 2012

Tesi di Elisa Casetta (Capitolo 3): Le competenze dell'Educatore Professionale

Quarto appuntamento con la tesi di Elisa Casetta.
Nel terzo capitolo Elisa argomenta sulle competenze dell'Educatore Professionale.
Buona lettura, e alla settimana prossima con il quarto capitolo!



CAPITOLO 3

Le competenze dell'Educatore Professionale

Come trattato nei precedenti capitoli, la professione educativa sta vivendo oggi una nuova stagione di ripensamento e di riqualificazione all'interno delle politiche sociali e nel sistema dei servizi. I cambiamenti del panorama culturale e di politiche sociali verificatisi in questi ultimi vent'anni hanno trasformato profondamente il modo di intendere e di realizzare la professione. Il compito primario, in questa nuova situazione, è quello di riflettere e mettere a fuoco sensi, significati, implicazioni e possibilità connesse alle nuove frontiere che si aprono alla professione. Una professione particolare e complessa quella dell'educatore: intenzionale ed interpretativa, fatta di competenze e riflessività, in cui le idee del rinnovamento e dell’auto-rinnovamento, giocano un ruolo determinante.

E’ una professionalità complessa, in cui molti saperi si connettono ad una prassi che è intenzionale e non solo tecnica, che necessita di capacità di progettualità e progettazione, di comunicazione e di formazione. Da qui la necessità della professione di riflettere costantemente su sé stessa, in modo da preservare la propria identità, il proprio carattere intenzionale oltre che lo statuto problematico.

Non si parla, come spesso si sente dire, di chiudere la fase sperimentale dell'educatore professionale, perché il lavoro educativo è intrinsecamente sperimentale, sia perché si costruisce nell'irripetibilità di ogni singola relazione educativa, sia perché cambia necessariamente secondo i mutamenti del contesto storico-sociale in cui avviene.

È giusto affermare appunto che si apre una nuova fase, tenendo conto dell'intero percorso di vita dell'educatore: il patrimonio di esperienza professionale ottenuto può finalmente consentire di riconoscere le linee fondamentali che caratterizzano la professione collegando in essa attività, metodologie diverse tra loro, nuove prassi e competenze in quanto rivolte e diverse utenze e a diversi ambiti di lavoro.


 

In base a quanto trattato finora alcuni interrogativi nascono spontanei:

Quale tipo di educatore si vuole formare? Che cosa richiede il mercato del lavoro? Queste modificazioni porteranno allo snaturamento del ruolo educativo dell'educatore a favore uno sanitario, con la progressiva scomparsa del primo? E’ possibile, e come, regolare l’accesso all’esercizio della professione educativa (albo professionale, codice deontologico ecc.)?

E’ attorno a questi interrogativi che si intende analizzare i cambiamenti avvenuti nella professione, mettendone a fuoco i punti fermi, le competenze consolidate, e riconoscendone i recenti ampliamenti di ruolo e funzioni, le competenze da implementare.


3.1 Chi è l'Educatore Professionale?
Nel clima di incertezza che da sempre ha caratterizzato il ruolo dell'educatore, questo è riuscito progressivamente e non senza fatiche a collocarsi e farsi spazio per riconoscersi ed essere riconosciuto; tutto ciò, portando un contributo specifico, che si è orientato sui processi di crescita, di apprendimento, di reinserimento sociale, sulla prevenzione con una rilevante e costante attenzione alla persona nella sua globalità, allo sviluppo della partecipazione degli individui, dei nuclei familiari, degli ambienti relazionali e comunitari e alla mediazione con le realtà di intervento.

Come già detto il profilo dell'educatore è definito con il D.M della Sanità n. 502/98 "Regolamento recante norme per l'individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell'educatore professionale", in cui si evidenzia che:

L'educatore professionale:

a) programma, gestisce e verifica interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà per il raggiungimento di livelli sempre più avanzati di autonomia;

b) contribuisce a promuovere e organizzare strutture e risorse sociali e sanitarie, al fine di realizzare il progetto educativo integrato;

c) programma, organizza, gestisce e verifica le proprie attività professionali all'interno di servizi sociosanitari e strutture socio-sanitarie-riabilitative e socio educative, in modo coordinato e integrato con altre figure professionali presenti nelle strutture,

con il coinvolgimento diretto dei soggetti interessati e/o delle loro famiglie, dei gruppi, della collettività;

d) opera sulle famiglie e sul contesto sociale dei pazienti, allo scopo di favorire il reinserimento nella comunità;

e) partecipa ad attività di studio, ricerca e documentazione finalizzate agli scopi sopra elencati.

3. L'educatore professionale contribuisce alla formazione degli studenti e del personale di supporto, concorre direttamente all'aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e all'educazione alla salute.

4. L'educatore professionale svolge la sua attività professionale, nell'ambito delle proprie competenze, in strutture e servizi sociosanitari e socio-educativi pubblici o privati, sul territorio, nelle strutture residenziali e semi-residenziali in regime di

dipendenza o libero professionale".

La definizione riportata nel decreto è quella tuttora in vigore, relativamente alla sola area sanitaria; non c'è infatti, una definizione giuridico-normativa che riguardi il profilo professionale, le funzioni e l'ambito lavorativo per tutti coloro che svolgono attività educative, al di fuori del campo sanitario.

Questo comporta una differenza, a livello di collocazione lavorativa, tra coloro che si affacciano al mondo del lavoro provenendo dai diversi percorsi formativi.

Su questi temi l'educatore si interroga e valorizza il piano dei valori e dei principi che conducono l'azione e i comportamenti professionali, al fine di offrire servizi nel pieno rispetto degli utenti, di sé stessi, e delle caratteristiche del contesto.


Il lavoro dell'educatore professionale oggi non può prescindere dal riflettere anche sui principi etici che lo caratterizzano, da cui parte il doveroso lavoro di costruzione di un codice deontologico.

Affrontare la dimensione deontologica permette di rispondere meglio alle domande relative al "non so cosa fare, non so come fare", ma anche alle domande relative al "perché" delle azioni che si compiono, al fine di delineare i limiti e i confini al di là dei quali un'azione educativa diviene eticamente incongrua di un punto di vista professionale.


3.2 Il codice deontologico

L' A.N.E.P. ha proposto dal 2002 un codice deontologico per la categoria degli educatori professionali, in cui vengono individuate le responsabilità nei confronti della propria professione, dell'utenza, delle famiglie, dell' équipe, del datore di lavoro e della società.

Nel codice deontologico s’individuano responsabilità, doveri e impegni, applicabili nell’esercizio della professione dell'educatore professionale, indipendentemente dalla situazione di lavoro, dall’utenza di riferimento, dall’organizzazione dei servizi in cui si opera. L'obiettivo è quello di determinare e di garantire la qualità della pratica professionale degli educatori, secondo principi universalmente riconosciuti e criteri stabiliti dagli stessi. Per meglio chiarire l'utilità di un codice deontologico bisogna innanzitutto ribadire che non si tratta di un manuale, e neanche un mansionario dove poter trovare risposte operative alle infinità di situazioni in cui l'educatore si trova ad operare.

Un codice deontologico che si rivolge ai professionisti, infatti, porta con sé alcune problematiche: è impossibile codificare e regolamentare alcuni aspetti del lavoro educativo, come ad esempio "l'empatia", è una caratteristica questa, personale e personalizzata, ma si può comunque cercare di creare una sorta di "etica comune" a tutti gli educatori, in quanto proprio la presenza di un codice dà per scontato che ci sia una condivisione di valori tra tutti i professionisti e tra gli utenti.


 

La presenza di un codice deontologico è collegata al modo in cui gli educatori vedono la propria professione, un importante strumento di riconoscimento e auto-riconoscimento, nel tentativo di promuoverla e salvaguardarla da possibili esercizi abusivi e non professionali.

Il codice dev'essere inteso come risorsa, che insieme ad altri strumenti tende a favorire visibilità al lavoro educativo, aumentando perciò conoscenza, valore e spessore alla professione. Possiamo affermare che questo codice abbia assunto, per molti, una funzione di tipo "orientativo-conoscitiva" ,come forma di riconoscimento, tutela e diritto, e una prospettiva di legittimazione della professione. A causa di una legislazione ancora carente, il codice risulta indebolito per ciò che attiene la funzione "normativo-giuridica", in quanto manca un'indicazione precisa sia sul percorso formativo che abilita all'esercizio della professione, sia per tutti quei riconoscimenti utili per la costituzione di un albo professionale, al pari delle altre figure professionali che operano nel settore socio-sanitario e non solo. Nonostante questi innumerevoli sforzi, ad oggi gli educatori sono sprovvisti di un codice deontologico adeguatamente codificato e regolato e di un albo professionale, grosso limite, questo, per il riconoscimento di tale professione.


3.3 Le competenze professionali

Il tema della competenza risulta quindi fondamentale ed essenziale per la professionalità dell'educatore. Affinché una professione nasca, si riconosca, venga formalizzata e si consolidi, non è necessario che abbia solo un riconoscimento in leggi specifiche, ma è indispensabile che sia connotata da un corpo di competenze solido e condiviso.

All'educatore infatti, sono richieste specifiche competenze per svolgere al meglio le proprie funzioni.

Non basta essere ben disposti e intenzionati verso l'altro per realizzare un intervento educativo, ma è necessario possedere capacità, abilità e competenze che sono fornite e alimentate da un processo continuo di formazione e auto-formazione.


La complessità e la molteplicità degli interventi e dei contesti in cui opera l'educatore, comporta la necessità di acquisire competenze multiformi, variegate e trasversali, che fanno riferimento sia ad ambiti teorici, che metodologici-pratici. Il termine "competenza" deriva dal verbo latino cumpetere "chiedere, dirigersi a" , il che equivale ad andare insieme, mirare ad un obiettivo comune, nonché finire insieme, incontrarsi. Quando si utilizza questo termine si fa’ comunemente riferimento al possesso, da parte del soggetto, della capacità di manifestare comportamenti adeguati in situazioni differenti, di combinare attivamente e creativamente le risorse disponibili (conoscenze, capacità e attitudini) in maniera funzionale ai contesti e alle situazioni della realtà quotidiana, dunque la persone dovrà essere in grado anche di padroneggiare casi o situazioni problematiche. Non bisogna però ignorare che, all’atto pratico, la competenza trova espressione in contesti sempre mutevoli e mai uguali a se stessi. Nella pratica lavorativa il professionista utilizza oltre ad un bagaglio di conoscenze e ad una sempre più raffinata capacità procedurale, una sensibilità personale. Vi è quindi un’area che fa riferimento a dimensioni personali della persona, al suo sistema di valori, ai tratti della sua personalità.

"Il professionista è quel soggetto che non solo possiede competenze specifiche, ma è in grado di far fronte all'imprevisto, all'incertezza, alla complessità. La professionalità quindi, non è solo aderenza alle regole, ma anche interpretazione e invenzione delle stesse, ricerca continua e innovazione, capacità di problematizzare situazioni e identificare intuizioni e soluzioni perché si costruiscano repertori e pratiche di gestione dell'attività professionale. Professionalità nello stesso tempo, è sinonimo di padronanza di sé stessi, del contesto, degli altri, della situazione come capacità di essere efficiente, efficace e soprattutto inventivo e creativo, in grado di fare i conti con la complessità e di uscire dagli schemi rigidi e obsoleti".

Svolgere il ruolo di educatore significa calarsi nel processo educativo con il bagaglio di saperi necessario a comprenderlo, orientarlo ed a promuoverlo.

Quel bagaglio è fatto di competenze distintive, in quanto patrimonio specifico della professione, di competenze consolidate nel tempo e di competenze che, sia sulla base delle evoluzioni degli "scenari", che sulla base della crescita professionale, saranno da implementare o da sviluppare in futuro.


3.3.1 Le competenze consolidate
Le competenze sviluppate nel lungo processo di evoluzione dell'educatore riguardano diversi ambiti, che vanno dall'area della conoscenza di base, delle competenze metodologiche, quelle comunicativo-relazionali, quelle organizzative, fino alle competenze personali e relazionali.

Le conoscenze teoriche
comprendono sia un approfondimento delle principali scienze umane (pedagogia, antropologia, psicologia, sociologia, diritto) che un’adeguata conoscenza delle discipline medico-sanitarie, ma fanno anche riferimento alla necessità che gli educatori siano uomini e donne del loro tempo, partecipi della vita sociale e politicamente attenti. Tali discipline predispongono un'apertura mentale in grado di comprendere i processi di socializzazione e integrazione, le diverse tipologie di soggetti con cui l'educatore si troverà ad agire e i contesti circostanti.

Le competenze metodologiche
, riguardano il "saper fare", da intendersi come capacità d’azione, come abilità nell’individuare le strategie e gli strumenti più congrui alla realizzazione concreta di processi, a partire da obiettivi generali e dall’analisi delle principali caratteristiche dei protagonisti dell’evento educativo. Nella professionalità la tecnica è pur sempre intenzionale, essa acquista infatti senso e valore solo attraverso la capacità di essere congruente con il contesto a cui si riferisce.

La professione usufruisce della progettualità e della progettazione, intese come filosofia dell’agire, come metodo e strumento operativo.

La progettualità garantisce una professionalità teleologicamente orientata, la progettazione è l'atto pratico della stilazione del progetto, mentre la ricerca accompagna il continuo professionalizzarsi entro una dinamica prassi-teoria-prassi.

Ecco allora come nasce la Ricerca-Azione , fondamentale per attivare i soggetti, per produrre azioni in grado di ricercare e costruire competenze e favorire processi di cambiamento. Progettualità e ricerca devono consentire, quindi, al soggetto di generare ulteriore professionalità e permettere di mantenere alta la riflessione sulle dimensioni specifiche della professionalità pedagogica.

L' educatore professionale può essere considerato anche un "tecnico della comunicazione". Quest'area si riferisce alla capacità di veicolare un bagaglio di informazioni di varia natura, basata su una conoscenza approfondita delle dinamiche in cui l'educatore è inserito. Esso infatti, comunica con l'utenza, ma anche con le loro famiglie, con i colleghi del gruppo di lavoro, con i diversi attori sociali presenti nel territorio.

La competenza comunicativa
si riferisce perciò al concetto di "comunicazione educativa", che sostanzia quello più ampio di "relazione educativa", attraverso la quale si realizza lo sviluppo emotivo, affettivo, sociale e cognitivo degli utenti che diventano protagonisti del proprio percorso di crescita e cambiamento.

Appare quindi fondamentale che l'educatore acquisisca la capacità di predisporre un clima materiale e psicologico di rispetto, fiducia, sostegno e sicurezza reciproci, di stabilire rapporti empatici con i soggetti, di prendere in considerazione i diversi punti di vista e di coinvolgere responsabilmente l'utenza nell'individuazione dei bisogni e nella progettazione e conduzione delle attività.

L'area delle competenze organizzative poi, comprende l’amministrazione, la gestione e lo sviluppo dei servizi socio-educativi dove lavora, e l’organizzazione, pianificazione sistematica del lavoro socio-educativo. L’educatore sociale deve saper progettare e promuovere le attività ed i processi socio-educativi, così come documentarli e valutarli dal punto di vista delle finalità e dei metodi socio-educativi.

Infine, le competenze personali si riferiscono all'esperienza di vita, al vissuto personale e alla formazione dell'educatore. In esse si fondano saldamente gli aspetti motivazionali e comportamentali e le situazioni nelle quali l'esperienza si è realizzata.

La personalità complessiva dell’educatore, le sue peculiarità caratteriali, le sue virtù e le sue inclinazioni personali sono essenziali al fine dello svilupparsi di relazioni significative.

Come riportato da L. Milani (2000) le abilità personali dell'educatore portano alla costruzione di competenze trasversali, che si possono raggruppare in:

Saper apprendere: apprendere ad apprendere è l'obiettivo principale del lavoro educativo; bisogna costruire una professionalità aperta e dinamica che consenta l'attivazione di comportamenti e condotte mirate alla messa in atto di competenze di volta in volta adeguate alla situazione.

Essere una persona creativa: educare non è trasferire o riprodurre modelli, ma valorizzare, personalizzare, inventare e declinare al singolare l'atto educativo.

Saper assumere rischi: il buon esito di un progetto, di un cammino non è mai dato per scontato. È necessario che l'educatore tenga in considerazione la probabilità di poter sbagliare e di assumersi il rischio che possono comportare le sue responsabilità.

Saper tollerare le frustrazioni: è importante saper gestire i conflitti, la rabbia e il fallimento che si può verificare in ambito educativo.

Essere disponibili al cambiamento: strumento principale per condurre ogni tipo di intervento. La relazione educativa trasforma continuamente non solo il soggetto, ma anche chi opera con lui. L'indisponibilità al cambiamento rende improduttiva e inefficiente la relazione educativa, che richiede capacità di mettersi continuamente in gioco.

La competenza cardine, sempre secondo Milani L., dell'educatore professionale è la competenza pedagogica e lo strumento principale che egli ha per attuare il processo educativo è la relazione educativa.


"La competenza pedagogica si può definire come l'insieme complesso e dinamico di conoscenze, di abilità, di procedure metodologiche, di esperienze consolidate e ordinate di tipo educativo, fondate sulla riflessione e sulla teorizzazione pedagogica che connota in modo specifico la professionalità educativa e che i soggetti che operano in questo settore devono saper mettere in campo in modo personale e critico quando progettano, attuano e valutano il proprio intervento".

Essa , inoltre, si qualifica per essere costruita intorno al principio di educabilità dell'uomo e quello di relazione come condizione per la promozione, lo sviluppo e il cambiamento. La competenza pedagogica si fonda e si muove secondo la prospettiva della globalità; qualsiasi evento educativo infatti si realizza come un organico e complesso insieme di elementi o di variabili tra loro in stretta connessione. La globalità consente di operare educativamente evitando parzialità che non tengono conto della complessità intrinseca e costitutiva del fatto educativo e, soprattutto, permette l’apertura verso altri punti di vista e verso altre professionalità.

Appartengono alla competenza pedagogica la capacità di comunicare e l’orientamento metodologico per cui la persona stessa dell’educatore professionale rappresenta uno dei fattori educativi rilevanti. Acquistano in tal modo notevole importanza la concretezza e la continuità della relazione educatore-educando. E’ possibile quindi ritenere la competenza pedagogica ciò che insieme qualifica e distingue l’educatore professionale. Possiamo e dobbiamo considerare il soggetto dell’educazione sempre in qualità di singolo, sempre un’eccezione che non può diventare regola, nel  riconoscimento della specificità della persona umana. La particolarità della competenza pedagogica è la progettualità educativa, l’elaborazione di un percorso intenzionale in cui il soggetto in formazione prende forma. L’evento educativo è nello scambio reciproco, "relazione" e "cura". La cura è intesa come atteggiamento di premura, attesa, gratuità; cura è farsi carico dell'altro e accompagnarlo lungo il cammino di cambiamento. L'educatore deve essere consapevole che le capacità e le risorse del soggetto non si sviluppano se non esiste qualcuno che si prenda cura di lui.

Lo strumento essenziale dell'educatore è la relazione educativa: la costruzione di un rapporto significativo con l'utente è fondamentale, dal momento che ogni maturazione, ogni cambiamento è impossibile se non vi è il coinvolgimento diretto con l'utenza. La relazione educativa si differenzia dalle altre relazioni, in quanto persegue l'obiettivo di promuovere lo sviluppo e la crescita di un cambiamento mirato e quanto più consono alle prospettive dell'utente. Per questo è importante che sia dotata di intenzionalità, per far in modo che l'intervento sia finalizzato ad uno specifico obiettivo e non improvvisato. L'educatore dev'essere in grado di osservare, ascoltare, percepire, nel senso di avvertire gli stimoli della realtà esterna, captare anche i minimi particolari e i segnali di un soggetto che possono essere fondamentali alla costruzione di una buona relazione. Deve adottare strategie d'intervento, sempre soggette a verifiche e valutazioni in itinere, prendere in considerazione i diversi mondi in cui è coinvolto l'individuo e inserirsi lui stesso nella relazione per comprendere a fondo le dinamiche di quell'intervento, ma nello stesso tempo, saper trovare un giusto equilibrio tra coinvolgimento e distacco.

Questo è uno dei punti cruciali della professione: non ci si può lasciar prendere troppo dalle situazioni vissute dall'utente e non si può nemmeno distaccarsene eccessivamente, altrimenti si corre il rischio di attuare un progetto distaccato, immotivato, disinteressato e fine a sé stesso.

Il mantenimento di questo equilibrio è un'impresa ardua perché mette in campo aspetti personali dell'operatore, che attengono alla sua emotività e affettività. Infatti, l'affrontare quotidianamente relazioni empatiche, di aiuto e spesso di sofferenza con l'utenza mette in primo piano anche l'interiorità, le debolezze e il vissuto dell'educatore stesso.

Attraverso questa relazione l'educatore instaura una comunicazione che comprende la globalità della persona, promuovendo nel soggetto l'autonomia, e dove non è possibile, il mantenimento di una qualità di vita dignitosa, la costruzione dell'identità e lo sviluppo della personalità, favorendo cambiamenti e tenendo in considerazione risorse e potenzialità e poi limiti e difficoltà di ognuno. Ciò attraverso la difesa delle risorse già consolidate e recupero delle potenzialità residue di ogni individuo, e con azioni pensate, progettate, valutate e documentate, sempre tenendo conto della storia di vita e del contesto socio-ambientale in cui esso è inserito.

In sostanza possiamo affermare che la finalità generale degli educatori è il cambiamento: "Lavorare per il cambiamento e non limitarsi all'assistenza, anche nella concretezza, significa modificare gli equilibri, le identità fragili: ad esempio non solo utilizzare le risorse pubbliche disponibili per supportare una famiglia in difficoltà lasciando immutate le dinamiche familiari e sociali di questa, ma attivare e progettare un utilizzo delle risorse specificamente indirizzato a comprendere le dinamiche problematiche della stessa e modificarle, per attuare un cambiamento all'interno, per promuovere autonomia e far in modo che la famiglia riesca a ritrovare un suo equilibrio e una sua stabilità" (O.Gardella;F. Angeli).

Ovviamente è un processo, questo, lungo e faticoso, ma è questo che dovrebbe essere il lavoro sociale. Quando si parla di cambiamento, si parla innanzitutto di cambiamento della propria visione, percezione e lettura di sé stessi, e poi, anche delle condizioni di vita.

Come afferma Demetrio D.: "l'educazione è la scienza del cambiamento, poiché esso è intenzionale da parte dell'educatore e non solo percepito, ma spesso ricercato da parte del soggetto".

Il soggetto può scegliere di attuare il cambiamento per desiderio o per convenienza, ma sempre deve avvenire una ripartizione delle responsabilità che lo veda attivo e creativo, malgrado tutte le possibili resistenze che egli frappone tra sé, questo processo e chi lo conduce.

Ancora Demetrio: "il cambiamento è fondamentalmente portatore di un dislivello, di uno scarto tra prima e dopo, tra un lasciarsi alle spalle e un guardare avanti, tra una fine e un inizio, tra una perdita e una conquista, tra un abbandono e un incontro, (…) tutto ciò chiama in causa sia la natura critica e conflittuale , sia l'efficacia riconciliativa e riparatoria del cambiamento". L'educatore in questo senso deve aspettarsi e saper affrontare momenti di crisi, di rifiuto e regresso da parte del soggetto.

E' fondamentale lasciare spazio all'errore, perché proprio l'errore differenzia i percorsi, li personalizza, li cambia e li migliora: nella sua imperfezione l'errore è ciò che testimonia la costante ricerca e creatività delle infinite possibilità, propria del lavoro educativo, e richiede coraggio, perché solo chi accetta di sbagliare accetta il rischio connesso al cambiamento ed è disposto ad apprendere.

"Tollerare l'incertezza, esplorare lo spazio aperto del possibile, della sospensione del giudizio, procedere in territori ancora sconosciuti, sono caratteristiche proprie dell'educatore, che non può accontentarsi di interpretare il ruolo dell'accompagnatore, dell'intrattenitore, del ‘bravo ragazzo,disponibile’, che ancora in tanti servizi viene richiesto il futuro per la figura educativa, pena il rischio di appiattire la professionalità in mero ruolo esecutivo, può realizzarsi nel giocare la scommessa di muoversi in territori incerti e di sostenere l'ambivalenza del possibile e del non compiuto (...)".

Come sostiene ancora L. Milani (2000), queste prospettive permettono di sintetizzare alcune competenze pedagogiche consolidate nel tempo dall'educatore professionale:

Saper gestire la complessità: gestire la complessità implica la padronanza di strumenti culturali in grado di cogliere, al di là delle apparenze, la rete di relazioni, situazioni e problematicità che sempre accompagnano l'evento educativo.

Sapersi confrontare con i sistemi di significato: è necessaria la capacità di leggere e interpretare il sistema e il contesto educativo in cui l'educatore opera, l'insieme dei valori appartenenti al quel soggetto in quella determinata cultura e con il suo bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Saper interpretare i bisogni educativi: il compito è quello di promuovere l'educabilità, e pertanto, individuare i bisogni educativi e formativi del soggetto in questione. L'attività dell'educatore è incentrata sul futuro della persona, sulle potenzialità da sviluppare sulle quali egli scommette ed elabora un progetto attento all'unicità e alla globalità della persona. Saper interpretare i bisogni educativi significa anche saper cogliere le domande latenti, non espresse, spesso più autentiche di quelle manifeste.

Saper osservare, ascoltare e indagare: saper osservare e ascoltare costituiscono le premesse di ogni relazione educativa. L’osservazione è un atto di percezione, quindi, un atto selettivo di raccolta, di decodifica e di ricostruzione dei dati. Bisogna tenere in considerazione che non esiste un'osservazione pura, in quanto sempre condizionata dalle nostre vedute. L'ascolto è una fase altre sì importante nella relazione, perchè permette di comprendere realmente ciò che l’altro sta dicendo, mettendo in luce i suoi punti di forza e le sue debolezze. Infine, saper indagare, come metodologia della ricerca, che consente di affrontare e gestire la complessità e la problematicità della realtà e del processo educativo stesso.

Lavorare in gruppo, con altri professionisti e in rete: il lavoro d'équipe e quello in rete costituisce la prassi di ogni lavoro educativo. Lavorare in gruppo significa saper collaborare, affrontare un dibattito, un confronto, essere capaci di dialogare con altre professionalità e diversi linguaggi, capacità di socializzazione e scambio reciproco. Questo è un importante punto di partenza per lo sviluppo di un progetto completo e concreto.

Essere buoni comunicatori: nella relazione educativa ciò che conta è la volontà da parte dei diversi attori di costruire un legame; la comunicazione è lo strumento che favorisce questo legame. Parlare all’utente non vuol dire limitarsi ad usare un proprio linguaggio per esprimere i contenuti, ma vuol dire saper usare un linguaggio comprensibile e questo implica la necessità per l'educatore di conoscere e saper utilizzare diversi linguaggi, da quelli verbali a quelli non verbali, con cui l’ educando, in base all’età, al livello di maturazione e cultura, può esprimersi. In modo particolare l’educatore sa leggere il linguaggio non verbale dell’utente, ma sa anche gestire il proprio poiché è soprattutto attraverso questo che invia messaggi non espliciti, ma ugualmente rilevanti.

Gestire la diversità: l'educatore agisce nella diversità, per questo è importante che sappia accoglierla, di modo che ognuno possa esprimersi nella sua libertà, che sappia riconoscerla e promuoverla, per assicurare dignità alla diversità di ognuno, che sappia relazionarsi, crescere e rispondere alla diversità. Perché la diversità deve essere assunta come fulcro di ogni azione educativa, in quanto realtà da esplorare, risorsa per il singolo e il gruppo.

Saper progettare: progettare significa guardare al futuro, inventare nuove prospettive e fa riferimento all’intenzione di impostare ogni attività educativa in concreto.


3.3.2 Le competenze da implementare

Lavorare con singole persone o con gruppi, coordinare e progettare interventi, sviluppare reti o imprese sociali, sostenere lo sviluppo delle comunità locali o i processi formativi dei nuovi educatori, prestare consulenza ad équipe e progetti educativi sono diventati i nuovi confini del lavoro educativo.

La professione nata sulla dimensione del prendersi cura si sta via via trasformando per giungere a nuovi orizzonti. Il prendersi cura diventa una modalità di approccio alle situazioni, non solo alle persone, è il porre attenzione a quel contesto, l'avere cura di quella determinata situazione o di una molteplicità di situazioni. È possibile prendersi cura altre sì del funzionamento dei processi, della connessione fra sistemi, della costruzione di reti, della gestione e verifica delle attività, delle strategie di progettazione e di tutte le modalità operative. "Pensare all'educatore in questi termini significa immaginare un professionista in continuo divenire e che non solo spende il proprio ruolo circoscritto all'interno di un servizio, ma si garantisce spazi di riflessione e di confronto" .

Il passaggio è avvenuto dal prendersi cura dei singoli soggetti in difficoltà al prendersi cura dell'intero gruppo, dei servizi, del territorio, delle comunità fino al prendersi cura degli altri educatori.

In questi ultimi anni le richieste di funzioni educative sono andate sempre più radicandosi nel complesso panorama dei servizi socio-sanitari e assistenziali. L'esperienza condotta nei servizi, la formazione e i processi di riqualificazione hanno portato gli educatori ad avere un mercato e conseguentemente in base a questo ad avere richieste sempre più specifiche riguardo le proprie competenze e funzioni. Il processo di aziendalizzazione che è avvenuto in questi anni nel settore del sociale, ha rinnovato l'attenzione da un lato attorno al contesto organizzativo e alla ricerca di modelli di sviluppo ideali di funzionamento, dall'altro nei confronti degli operatori dei servizi, del loro essere parte di quell'organizzazione e delle loro competenze. Una professione duttile, che cammina di pari passo con il consolidamento del sapere teorico e metodologico.

Una professione che, a differenza di altre più affermate, ha saputo ristrutturare il proprio lavoro senza perdere di vista la propria identità. A partire dai cambiamenti in atto in quest’inizio di millennio i professionisti hanno colto l’occasione per rifondare e riqualificare la cultura professionale esistente, arricchendola e consolidandola. L’educatore ha dimostrato una grande capacità di adattamento ai bisogni dei soggetti dei quali si occupa ed alle richieste del contesto sociale nel quale essi sono inseriti. Questa abilità nella lettura del bisogno e nella mediazione è stata accompagnata dalla capacità dell’educatore di decidere del proprio destino professionale senza attendere che fosse il mercato del lavoro a farlo. Ogni cambiamento sociale è stato una sfida per la professione, ed ancora oggi, in assenza di una regolamentazione, l’autonomia professionale dell’educatore sembra essere affidata alle capacità personali di esporsi ai rischi delle novità. Alcuni educatori hanno interpretato infatti le evoluzioni sociali, culturali, politico e legislative in atto come motivanti possibilità di apprendimento professionale. Questi operatori non si sono quindi limitati a rispondere in modo efficiente ed efficace alle modifiche ambientali, ma hanno allargato il patrimonio dei contenuti dando di fatto avvio ad un processo di revisione della professione.


 

 
Tale processo è destinato a proseguire. Da un lato, perché la realtà sociale, politica, culturale porterà sempre nuovi bisogni e nuove situazioni su cui occorrerà intervenire; dall’altro perché è nella natura stessa dell’educatore, e delle organizzazioni in cui opera, la tensione verso la ricerca, la disposizione all’indagine, all’esplorazione di percorsi possibili.

Se questo atteggiamento è riscontrabile in molti educatori, e globalmente nella figura stessa, è possibile riprendere il cammino provando ad evidenziare i futuri approdi possibili e lo sviluppo delle competenze emergenti. L'identità dell'educatore è un’identità in divenire, costruita attraverso percorsi complessi e non lineari, infatti il punto di forza della professione è proprio saper operare nei territori di "frontiera", là dove poco può essere rigidamente standardizzato. La connotazione di questo processo appare caratterizzata dalla capacità dell’educatore di prendersi cura della professione e di saper divenire senza snaturare la propria professionalità ma affiancando i tempi nel loro cambiamento.

Se in passato il mandato lavorativo era connesso alla relazione duale con l’utente, oggi si è giunti alla consapevolezza della nodale importanza del territorio e delle istanze di cui è portavoce. All’interno di questa logica evolutiva è avvenuto il passaggio verso una concezione più olistica del lavoro educativo che si è concretizzata nel lavoro di rete o lavoro di comunità. Questa nuova modalità operativa pone nel territorio e nella comunità locale le dimensioni entro cui collocare ogni intervento educativo, ovviando qualsiasi pratica autoreferenziale.

Gli educatori si sono trovati a lavorare, dialogare, costruire processi di cambiamento con i cittadini, con gli amministratori pubblici, con professionisti di altri servizi, con interlocutori del privato sociale, al di fuori delle istituzioni. Hanno così dovuto ricostruire i riferimenti teorici, ricollocandosi nella rete e nelle relazioni implementando le pregresse competenze. Mediazione e contrattazione, per esempio, costituiscono competenze connaturate nella professionalità educativa, entrambe appartengono all’educatore quali capacità ineludibili nella relazione con l’utenza. In questo contesto, è necessario saper utilizzare le competenze riferite all’osservazione, analisi, integrazione, cooperazione e valorizzazione delle risorse.

L’équipe non è più l’unico luogo di progettazione condivisa: bisogna essere capaci di lavorare integrando i contributi di altri soggetti appartenenti a servizi diversi, con culture, metodologie, mandati e risorse tra loro eterogenei. Il lavoro dell’educatore vede lo spostamento anche in altre direzioni attraverso le quali reinterpretare e ampliare le competenze pregresse. Si parla dunque di "saper progettare insieme".

Si compie infatti un passaggio dalla progettazione educativa, al progettare e realizzare interventi integrati con altri soggetti.

Anche la capacità progettuale, intesa come saper pensare in modo intenzionale e strategico, diventa oggetto di implementazione seppur mantenendosi all’interno della specificità dei compiti dell’educatore.

Il lavoro progettuale è l’esito di un processo comunicativo che vede interlocutori tra loro diversi collaborare per il raggiungimento di un obiettivo e la realizzazione di un intervento.

La capacità di curare la comunicazione ed i suoi processi è competenza intrinseca alla professione stessa ed è spendibile in ambiti quali la progettazione integrata con organizzazioni e istituzioni con mandati sociali e mission diverse. Le nuove consapevolezze circa il proprio agire professionale hanno condotto l’educatore a sviluppare la competenza progettuale in una direzione dialogica.

Progettare dialogicamente significa costruire con l’utenza dei percorsi, porsi in una posizione di dialogo ed ascolto. In questo caso l’educatore non è chiamato a produrre risposte quanto piuttosto ad attivare un processo comunicativo nel quale è cruciale il significato che i diversi attori coinvolti ne danno. La capacità di superare i confini dei servizi ha condotto, in tempi recenti, gli educatori a ricoprire ruoli di coordinamento, gestionali, organizzativi in cui è necessaria una professionalità forte, orientata sempre e comunque dalla riflessione sul proprio fare.

In queste nuove dimensioni paiono presenti alcuni elementi di criticità che rischiano di snaturare l’identità e l’essenza dell’educatore in forme standardizzate a volte troppo rigide e semplificatorie delle pratiche del lavoro sociale e di quello educativo, perdendo di vista la sostanza del lavoro quotidiano.

Il rischio prospettato è quello di un educatore burocrate, che privilegi il contenitore organizzazione-efficienza- economicità al contenuto persone-bisogni- efficacia.

"La strada indicata, per tentare
di far fronte a questi pericoli, sembra essere quella di percorrere e occupare una sorta di terra di mezzo: tra livello politico-organizzativo e livello operativo, tra operatori e altri operatori, tra operatori e utenti. Comunque una posizione che consenta di stare dentro le situazioni e non sopra o ai margini, in modo da monitorare e alimentare l’interazione tra teoria e prassi, alla ricerca di modelli e strategie innovative e adeguate ai nuovi bisogni".

L'educatore, quindi, dovrà essere particolarmente competente in:

Utilizzare nuove forme comunicative: i mutamenti sociali in atto, provocati e sorretti anche dall’introduzione e utilizzo delle nuove tecnologie, stanno cambiando profondamente i nostri stili di vita e dunque rappresentano un nuovo ambito entro cui l’intervento educativo si trova ad agire. Si tratta anche in questo caso di imparare ad utilizzare queste nuove tecnologie in modo creativo e di saper interagire con esse come nuovo strumento per entrare in relazione con il soggetto.

Lavorare in molteplici luoghi: spesso in questo contesto lavorativo l’educatore si trova a ricoprire diversi ruoli in diversi luoghi ; ciò significa che in molti casi si trova a rivestire le proprie risorse in maniera diversificata e meno totalizzante: diversi tipi di utenza, diversi assetti lavorativi, diversi strumenti e metodologie. Se da un lato ciò richiede più energie rivolte al versante organizzativo, dall’altro è segno di visibilità per la professione (alcuni educatori sono liberi professionisti) e rappresenta un valore aggiunto all’interno dei diversi contesti d’azione.


Essere ricercatori: l'educatore deve agire con un costante occhio critico e ricercatore all'interno della sua realtà, nel contesto socio-culturale e politico-organizzativo in cui opera, al fine di ridimensionare di volta in volta la sua professione e le sue competenze, conoscere e ricercare nuovi strumenti per far fronte alle diverse situazioni e al cambiamento.

A termine di questo viaggio attraverso il modo delle competenze, possiamo affermare che non si possono definire a priori il ruolo e le funzioni dell’educatore professionale, in quanto si modificano e si rinnovano di pari passo con i mutamenti sociali.

Questo però non nega la possibilità di tracciare linee guida e avere bene chiare le funzioni che deve svolgere nel suo lavoro, al fine di attuare un processo di riconoscimento e auto-riconoscimento e uno sviluppo sempre maggiore della professione.

giovedì 16 febbraio 2012

Elogio del pasticcio…

Interessante riflessione tratta da "Bivio pedagogico" un blog di Christian Sarno

Elogio del pasticcio…


Che pasticcio che hai fatto…”
La connotazione della parola pasticcio emerge prepotentemente nei discorsi dei genitori, dei coordinatori e dei responsabili delle cooperative, emerge nelle parole dei dirigenti dei servizi, dei tecnici, degli educatori, emerge spesso e sempre con una connotazione negativa, come a voler rimarcare, in altro modo, che l’errore che abbiamo fatto, l’aver sbagliato, sia una imprevista interferenza nel processo lineare che avremmo voluto. Il termine pasticcio, utilizzato in questo modo, è utile solo per rimarcare una mancanza.
La parola “Pasticcio” emerge spesso in educazione e sempre con la stessa connotazione, sempre come se fosse un difetto. Parlare di pasticcio tra adulti è infantilizzante, perché è un termine che si usa con i bambini, anche lì, con la stessa connotazione .
Non è accettabile sbagliare, fare errori, commettere passi falsi, perché ciò rallenta i tempi dei processi, vanifica l’aspettativa di un buon risultato, vanifica l’efficacia di un processo, come se la valutazione di un processo fosse legata al risultato.
La valutazione di un processo di lavoro, spesso, è legata solamente al risultato e nello specifico al risultato atteso.
Il pasticcio, si potrebbe intendere in altro modo, probabilmente, potremmo pensare che un pasticcio possa essere un prodotto, che se osservato attentamente ci potrebbe mostrare qualche cosa di nuovo. Alcune forme di arte, assomigliano a pasticci, forse perché sono incomprensibili, almeno fino a quel momento, perché nessuno ha ancora provato a dargli senso e significato.
Se provassimo a capire , veramente , quanto o cosa vale pasticcio potremmo andare oltre la sua ” vecchia e obsoleta” connotazione.
In cucina i pasticci (vedi foto) possono essere molto buoni, i pasticci (intesi come scarabocchi) dei bambini, riescono ad essere meravigliosi, pasticciare vuol dire sperimentare, provare, cercare, buttarsi, creare e sbagliare.
Se non permettiamo agli altri di pasticciare serenamente, come possiamo pensare che possano imparare.
Connotare negativamente la parola pasticcio vuol dire non permettere a chi sta provando a fare, di imparare.
Da oggi, a chi mi dirà, anche sul lavoro, “hai fatto un pasticcio” , risponderò : “grazie…”
Da domani, quando mia figlia mi dirà: “… papà, ho fatto un pasticcio”, le dirò : “… brava!”

lunedì 13 febbraio 2012

Tesi Elisa Casetta (Capitolo 2): La formazione dell'Educatore Professionale

Terzo appuntamento con la tesi di Elisa Casetta.
Dopo aver parlato, nel capitolo 1, dell'evoluzione delle politiche sociali e della nascita e sviluppo della figura dell'educatore professionale, nel secondo capitolo Elisa affronta la questione della formazione.
Buona lettura, e alla prossima settimana con il terzo capitolo!!


CAPITOLO 2

La formazione dell'Educatore Professionale
"L' educatore professionale in questi ultimi anni ha aperto nuovi spazi e ristrutturato alcuni aspetti della professione: sono stati definiti il profilo e il percorso lavorativo, si sono consolidati nuovi ambiti lavorativi (il lavoro di strada, la formazione degli operatori, ecc.) e nuovi approcci metodologici. Ma se da una parte le fondamenta della professione dell'educatore sono solide e forti, come lo è una professione che opera da più di quarant'anni, dall'altra sono ancora in atto lavori di rafforzamento e ampliamento.

I lavori devono consolidare "l'aspetto sociale" dell'educatore, in quanto peculiarità di tutte le professioni socio-sanitaria, evitando così una possibile medicalizzazione derivata dalla collocazione presso il Ministero della Sanità del decreto che definisce l'educatore professionale."

Come emerge dall'articolo di W. Brandani, "Educatore professionale: un cantiere aperto" si aprono per la professione dell'educatore, nuovi spazi di riflessione e revisione: emergono nuovi modelli operativi che richiedono l’implementazione di competenze consolidate e il riconoscimento di nuove, vengono ridefiniti il profilo e il percorso formativo.

I cambiamenti e le evoluzioni del sistema dei servizi e l’emergere di nuovi bisogni sociali cui rispondere, costituiscono uno stimolo per sottoporre la professione ad un’opera di rafforzamento ed ampliamento.

La realtà lavorativa degli educatori è ancor oggi caratterizzata da una pluralità di percorsi che rendono articolato e complesso il panorama professionale; infatti, nell'ambito dei servizi alla persona convivono diverse generazioni di educatori la cui motivazione, i cui percorsi di accesso ed approccio al lavoro si differenziano sostanzialmente.

Il lavoro sociale è regolato, pianificato e finanziato da diversi Enti: lo Stato stabilisce i criteri generali per il riconoscimento delle figure professionali; le Regioni concordano il profilo delle figure a livello nazionale; i Comuni pianificano annualmente i servizi da realizzare nel territorio e, quindi, anche il livello di occupazione degli operatori.


Il cardine istituzionale attorno a cui ruota il sistema delle professioni sociali sono le Regioni, determinanti sia per ciò che attiene la regolazione della domanda di figure professionali, sia per ciò che riguarda la regolazione dell’offerta di qualifiche e competenze.

La modalità di ingresso degli educatori nel mercato del lavoro è stata sempre caratterizzata da diversi canali: alcuni hanno iniziato la propria attività lavorativa privi di una formazione di base, altri hanno frequentato corsi di riqualifica in servizio, altri ancora hanno cominciato dopo aver conseguito titoli specifici.

"Vi è inoltre il difficile lavoro di arginare l’abusivismo di coloro che esercitano la professione senza il titolo abilitante, ingaggiati da un mercato del lavoro che relega la formazione e l’aggiornamento professionale all’area delle ottime rifiniture alle quali poter rinunciare in tempi di ristrettezze economiche" .

Bisogna ricordare, infatti, che molti operatori privi di specifica preparazione professionale e di un titolo abilitante, assunti per lo più negli anni ottanta, hanno iniziato la loro attività lavorativa sotto spinte ideologiche di natura politica o religiosa; nonostante questo, grazie a motivazione, impegno e capacità, hanno creato e dato vita ad iniziative significative ed innovative, contribuendo all’evoluzione dei servizi alla persona. Oltre a queste persone troviamo educatori professionali in possesso di titolo ottenuto presso scuole gestite dalle Università, dalle Regioni (ad esempio la S.F.E.P e la fondazione Feyles) o dalle ASL e ad un livello quantitativamente meno significativo operatori con laurea, in prevalenza in scienze dell’educazione.

Resta comunque grande difficoltà a reperire educatori in possesso del titolo e questo costituisce un elemento di rinforzo all’inserimento di personale privo di formazione specifica. Il problema è determinato anche dal fatto che la domanda di educatori professionali è oggi superiore all’offerta e trova fondamento in precisi standard regionali di funzionamento dei servizi. La collocazione di educatori non specificatamente formati comporta il rischio di creare una situazione lavorativa estremamente disomogenea in cui convivono operatori con scarse, nulle o elevate professionalità e motivazioni.

In questo modo si crea la necessità concreta di inserire nel mondo del lavoro, in qualità di educatori, soggetti con titoli differenti, con conseguenti ricadute sul piano della qualità degli interventi e sul livello di professionalità messa in campo. Con la recente riforma dei percorsi scolastici ed universitari infatti, si è tentato non solo di rendere omogenei i percorsi formativi per consentire agli operatori l’acquisizione di un titolo specifico, ma anche di arginare un processo che potrebbe condurre allo snaturamento della professione.

Il tentativo è quello di evitare un’ulteriore segmentazione del mercato del lavoro, con il conseguente abbassamento del livello di qualificazione professionale. Rimanendo in tema di formazione è necessario, inoltre, porre attenzione ad un aspetto fondamentale per la professione dell'educatore, quello cioè della promozione dell'apprendimento continuo. Si tratta della "formazione permanente" e della "supervisione", considerati due strumenti indispensabili della professione, momenti irrinunciabili di approfondimento ed aggiornamento su specifiche tematiche attinenti la professione ed i settori di intervento e conseguente riflessione sul proprio vissuto e sul proprio operato. E' necessario perciò costruire un collegamento tra formazione di base e formazione permanente in modo da garantire da una parte la valorizzazione e il rafforzamento della propria identità professionale, sia riguardo al crescere di nuovi bisogni e di altre problematiche sociali, sia a proposito di situazioni lavorative in cui l’educatore è coinvolto, e dall'altra momenti di costante aggiornamento, accompagnamento e sostegno allo sviluppo culturale e metodologico della professione.

E' importante perciò che siano affidate all'educatore sia la formazione permanente, che la supervisione e che si prenda sempre più coscienza dell'importanza e dell'efficacia di tali attività.

"(...) A tale figura dovrebbe essere garantita una formazione permanente di qualità non soltanto rivolta all'approfondimento degli aspetti tecnico-operativi, ma che sia in grado di fornire chiavi interpretative per la gestione della complessità cui il lavoro dell'educatore si riferisce e che lo contraddistingue. I contenuti dovrebbero essere veicolati con un'attenzione precipua agli aspetti motivazionali e di soddisfazione nel lavoro; all'individuazione e discussione di problematiche relative alla natura delle relazioni che l'educatore è chiamato a intrattenere a vari livelli e in diversi contesti; a una presa di coscienza e consapevolezza dell'importanza e della centralità degli strumenti del lavoro educativo, tra cui progettazione, valutazione e documentazione, strumenti da valorizzare, che contribuiscono alla creazione e al buon funzionamento di un gruppo stabile di lavoro, funzionale a garantire un elevato livello di qualità degli interventi formativi , nonché fornire ai singoli educatori sostegno e motivazione".

In conclusione possiamo affermare che l’esigenza di fondo rimane quella di giungere a una definizione dei profili professionali che operano sia nel socio-sanitario che nel sociale per una maggiore qualificazione dei servizi e degli interventi pubblici e privati e garantendo la spendibilità dei titoli livello nazionale ed europeo.

In questa prospettiva, va ripensato il sistema delle professioni sociali in modo che si coniughi al sistema dei servizi sia sanitari che sociali, indicando percorsi formativi definiti sia per le figure professionali consolidate e sia per le figure nascenti, favorendo la sperimentazione di nuovi profili.


Per garantire un livello qualificato di servizi è necessario inoltre che le Regioni:

vincolino l’ingresso nei servizi a personale con la specifica qualifica di educatore professionale sia nel settore pubblico sia nel privato convenzionato; in questa direzione, ad esempio, si sono già orientate la Regione Veneto e la Regione Piemonte.

promuovano la formazione in servizio per qualificare gli operatori assunti senza titolo ma con i requisiti di accesso ai corsi stessi;

prevedano corsi specifici per il personale in servizio, privo dei requisiti di accesso alla professione, con la garanzia del mantenimento del posto di lavoro e della qualifica funzionale raggiunta.

Le scuole potrebbero essere nello stesso tempo sedi di formazione di base e luoghi di formazione permanente, in modo da garantire un arricchimento reciproco fra operatori in servizio e operatori in formazione. In questa direzione vanno costruite e praticate situazioni di formazione per porre gli educatori in una posizione di protagonismo, con situazioni di auto-formazione e ricerca professionale finalizzate alla produzione di sapere professionale.



2.1 Gli anni Sessanta/Settanta: alla ricerca di una formazione

La formazione dell'educatore nasce e trova la sua prima fase di sviluppo nel settore della formazione professionale gestita dalle Regioni, accanto alle altre iniziative formative realizzate da Enti pubblici e privati, tra i quali, i corsi effettuati negli anni Cinquanta dalla F.I.R.A.S. (Federazione Italiana Religiose Assistenti Sociali), rivolti a religiose che lavoravano come educatrici all'interno di istituti.

Negli anni sessanta poi, i corsi della F.I.R.A.S. iniziano ad avere una cadenza regolare e una durata pluriennale, mentre sul fronte laico viene fondata a Milano l'E.S.A.E. (Ente Scuola Assistenti Educatori), sempre con lo scopo di formare persone qualificate all'interno del settore sociale.

Nel 1967 la necessità da parte dello Stato e di alcuni Enti assistenziali,tra cui la F.I.R.A.S., di avere personale qualificato all'interno dei proprio istituti si realizza un corso di qualificazione per educatori in servizio, con il concorso anche della Facoltà "La Sapienza" di Roma.

Negli anni settanta hanno inizio, quindi, le prime esperienze pioneristiche di formazione di figure educative con denominazioni diverse (educatore di comunità, educatore specializzato). Si tratta di un periodo caratterizzato da elevata sperimentalità: nascono scuole di formazione per questa figura professionale, in cui vengono in itinere, sperimentate nuove metodologie, nuovi strumenti e vengono rimodulati contenuti e modalità organizzative. La formazione viene affidata, attraverso le Regioni, alle scuole di formazione professionale; viene a delinearsi quindi una situazione differente da Regione a Regione. In questa periodo sono presenti percorsi formativi diversi : biennali, triennali, bienni comuni per educatori ed assistenti sociali con specializzazione nel terzo anno di corso.

Nel 1970 viene attivato il corso per "Educatore di comunità" alla Facoltà "La Sapienza" di Roma che prevedeva la formazione di un educatore:

"professionalmente preparato attraverso una formazione risultante da un'autentica integrazione di dati teorico, tecnici e pratici per l'educazione di fanciulli, adolescenti, giovani, presentanti o no difficoltà d'adattamento, tanto in comunità educative che in ambiente naturale, ad assolvere compiti di animazione sociale e di assumere responsabilità anche
educative in seno alle comunità stesse od a organismi educativo-assistenziali." La logica perseguita è quella di formare un educatore non soltanto nel lavoro circoscritto degli istituti, ma allargando l'ambito del suo intervento fuori dalle mura degli istituiti, teso anche alla prevenzione del disagio sul territorio.

Prima di questo periodo comunque, nonostante le iniziative messe in atto per formare l'educatore, non veniva richiesto alcun diploma specifico.

E’ solo con la fine degli anni settanta che si è cominciato a riconoscere requisiti e competenze del lavoro educativo e che si sono individuati percorsi formativi adeguati che non lasciano la formazione solo al "buon senso" ed all’esperienza professionale maturata sul campo.

E' in questi anni infatti, che nascono le prime riforme e i primi servizi dedicati alla prevenzione del disagio e dell'emarginazione, normati dalla L. 833/78 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale.


2.2 Gli anni ottanta: il Decreto Degan

Gli anni ottanta segnano un momento fondamentale nella storia dell’educatore professionale.

Nel 1984 avviene la nascita ufficiale della figura dell’ "Educatore Professionale", definita con il cosiddetto "decreto Degan".

Con tale provvedimento si identifica l’educatore come "(…) l’operatore che, in base ad una specifica formazione professionale di carattere teorico e tecnico- pratico e nell’ambito dei Servizi socio- educativi ed educativo- culturali extra- scolastici, residenziali o aperti, svolge la propria attività nei riguardi di persone di diverse età mediante la formulazione e attuazione di progetti educativi caratterizzati da intenzionalità e continuità, volti a promuovere e contribuire al pieno sviluppo delle potenzialità di crescita personale e di inserimento e partecipazione agendo, per il conseguimento di tali obiettivi, sulla relazione interpersonale, sulle dinamiche di gruppo, sul sistema familiare, sul contesto ambientale e sull’organizzazione dei servizi in campo educativo".

Per l'educatore professionale si prevede, a livello nazionale, un percorso formativo triennale universitario o professionale, per eseguire funzioni di rilevanza educativa, rieducativa e riabilitativa, con particolare interesse alla quotidianità e progettualità, in relazione ai servizi con e per la persona.

Con il decreto Degan si è costituito il fondamento legislativo sul quale si sono create e basate le esperienze formative delle scuole professionali regionali sino alla fine degli anni novanta.

Tale provvedimento ha anche accelerato, negli anni ottanta, l’istituzione di nuove scuole convenzionate con le Regioni per corsi di riqualificazione e formazione, contribuendo alla diversificazione dei percorsi didattici ed alla diffusione delle sedi formative sul territorio nazionale. In questi anni, infatti, si assiste ad una progressiva presa di coscienza dell'esigenza di un'adeguata formazione di base per l'educatore e della riqualificazione degli operatori già in servizio.

 

2.3Gli anni novanta: la formazione universitaria

Una prima traiettoria di formazione definita fa riferimento al Decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica, approvato nel 1989 che istituisce la nascita delle scuole a fini speciali per educatori professionali. L' ordinamento prevede: il diploma di scuola superiore secondaria quinquennale come titolo di ammissione , la durata triennale delle scuole a fini speciali, divisa in moduli didattici semestrali con sedici materie obbligatorie (otto base ed otto professionalizzanti) e tre opzionali, un tirocinio di almeno 500 ore ed una frequenza obbligatoria per 2/3 dell’orario e il rilascio del diploma abilitante dopo la trattazione di un tema scelto dallo studente. Il successivo ingresso dell’educatore nel circuito della formazione universitaria ha avuto avvio attraverso una serie di provvedimenti legislativi.


La L. 341/90 "Riforma degli ordinamenti didattici universitari" sancisce la soppressione delle scuole a fini speciali prevedendo la loro riconversione in corsi di diploma universitario.

Il DU trova anche sostegno in alcune leggi che prevedono tale formazione per le figure professionali di livello intermedio del settore socio-educativo e sanitario e nel D.lgs 115/92 di attuazione della direttiva CEE 89/48 riguardante il riconoscimento in Italia dei titoli formativi professionali acquisiti negli altri Stati della Comunità Economica Europea.

Quindi questo decreto permette all'educatore il passaggio a corsi di laurea affini con il riconoscimento parziale o totale degli studi compiuti.

Con D.lgs dell'11 febbraio 1991 "Modificazioni dell’ordinamento didattico universitario relativamente al corso di Laurea in Scienze dell’Educazione (ex Pedagogia)", alcune Università hanno dato vita al corso di Laurea in Educatore Extra-scolastico.

Il nuovo percorso formativo per educatore Extra-scolastico si differenzia da quello sperimentato dalle scuole per educatori professionali, soprattutto per ciò che attiene le materie professionalizzanti e l’esperienza di tirocinio all’interno dei servizi alla persona.

La collocazione della formazione dell’educatore professionale nei percorsi universitari ha però suscitato numerosi interrogativi.

Si è temuto, in primo luogo, che andasse disperso il patrimonio di esperienze maturato dalle scuole gestite dalle Regioni, ASL, istituti privati.

Il mondo della formazione professionale ha infatti svolto in questi anni un lavoro di preparazione degli educatori di alto livello, connotandosi per la strutturazione di corsi triennali di natura teorico-pratica. Il piano di studi universitario si è differenziato invece, da sempre, da quello delle scuole per educatori soprattutto per ciò che riguarda il tirocinio e le discipline .

La figura di operatore a cui ha rimandato questo tipo di formazione è quella di un professionista "denso" di teoria ma carente nelle competenze professionali. In secondo luogo il rischio di chi ha conseguito questa laurea è quello di vederne fortemente limitata la spendibilità sul mercato del lavoro, in quanto non abilitante all'esercizio della professione nella sanità, area questa in continua espansione per quanto riguarda la richiesta di educatori.

La scelta universitaria ha però tra i suoi vantaggi l’attribuzione di un valore legale abilitante al titolo stesso.

Il sistema scolastico italiano non prevede infatti altra formazione secondaria riconosciuta se non quella universitaria.

Lo scenario formativo degli anni novanta viene reso ancor più complesso ed articolato dalla costituzione del diploma universitario per "Tecnico dell'educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale", successivamente soppresso con D.lgs 29 marzo 2001 n.182 a favore del "Tecnico della riabilitazione psichiatrica", definito come "l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge, nell'ambito di un progetto terapeutico elaborato da un'equipe multidisciplinare, interventi riabilitativi ed educativi sui soggetti con disabilita' psichica" ; figura questa considerata nella sanità equipollente a quella di educatore professionale.

2.3 Oggi: nuove prospettive di riconoscimento per l'educatore professionale
Il nuovo millennio si apre con l’emanazione del Decreto del Ministero della Sanità n.520/98 che individua la figura dell’educatore professionale definendone il profilo, attraverso il possesso del diploma universitario abilitante per l’esercizio della professione.

Per la prima volta siamo in presenza di un profilo unico definito su tutto il territorio nazionale che individua l'educatore professionale come "l'operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi , nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un' équipe multidisciplinare, volti ad uno sviluppo equilibrato di una personalità con obiettivi educativo relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico-sociale dei soggetti in difficoltà".

Il Decreto inoltre stabilisce che la formazione dell'educatore professionale avviene "presso le strutture sanitarie del Servizio Sanitario Nazionale e le strutture di assistenza socio-sanitaria degli enti pubblici individuate nei protocolli d'intesa fra le regioni e le Università. Le Università provvedono alla formazione attraverso la facoltà di Medicina e chirurgia in collegamento con le Facoltà di Psicologia, Sociologia e Scienza dell'educazione". Ha inizio il progressivo passaggio di competenza, per ciò che concerne la formazione dell’educatore professionale, dal mondo della formazione professionale a quello universitario.

Un altro elemento importante è costituito dalla L. 42/99 "Disposizioni in materia di professioni sanitarie" in cui sono definiti i criteri necessari per il riconoscimento dei titoli ottenuti prima dell'emanazione del Decreto legislativo 520/ 98, prevedendo anche la partecipazione ad appositi corsi di riqualificazione professionale, con lo svolgimento di un esame finale.

Il 2 aprile 2001, al termine di una trattativa durata mesi tra l' A.N.E.P. e i Ministeri della Sanità e dell'Università, vengono firmati i decreti che istituiscono le classi di laurea di professione sanitaria, tra cui quella dell'educatore professionale, inserita nell'area della riabilitazione.

Gli aspetti caratteristici del provvedimento sono:

E' necessario il concorso di diverse facoltà per la formazione dell'educatore professionale, tra cui quella di Medicina e Chirurgia;

La tabella degli ordinamenti didattici prevede 180 crediti distribuiti sia in attività formative di base, sia in quelle integrative;

La formazione potrà avere luogo anche nelle strutture del SSN e prevede il tirocinio professionale;


 
Nuove possibilità di inserimento di esperti delle professioni nel curriculum formativo delle classi di laurea e nella commissione della prova finale del corso.

Nell'anno accademico 2001/2002 gli atenei avranno a disposizione due classi di laurea per educatori professionali : una definita nella classe XVIII di Scienze dell'educazione, che deriva dal vecchio corso di laurea in Pedagogia e l'altra nella classe delle professioni sanitarie nell'aria della riabilitazione, inserita presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia.

La riforma degli ordinamenti didattici universitari rafforza la distinzione tra educatori professionali impegnati nell’area sanitaria e quelli dell’area sociale. La formazione diversificata tra sociale e sanitario comporta almeno due nodi problematici: la previsione di due percorsi formativi non equiparabili (classe delle scienze dell’educazione e classe delle professioni sanitarie della riabilitazione), con il mantenimento di due profili professionali sostanzialmente uguali ma giuridicamente distinti.

A tal proposito l’A.N.E.P. ha espresso in un documento programmatico nazionale la necessità di istituire "un'unica figura di educatore debitamente formato mediante un unico e definito processo formativo di base che, evitando disomogeneità di contenuti e di indirizzi, permetta il suo efficace inserimento e favorisca le sue capacità ad operare in contesti ed ambiti diversi tra loro per utenza, per tipo di intervento e per organizzazione".

Si riscontra la necessità di costituire un unico e definito processo formativo, attraverso il concorso di più facoltà, per creare una figura in grado di rispondere alle molteplici, complesse e mutevoli esigenze del sistema sociale. In tale percorso sarebbe necessaria l'articolazione di almeno tre ambiti formativi: teorico-culturale-personale, per fornire un corpo integrato di conoscenze e competenze; metodologico , per fornire competenze e metodi, attraverso anche attività di sperimentazione; pratico-esperienziale, in grado di coniugare teoria e pratica, con l'importante esperienza di tirocinio.

La distinzione infatti del profilo professionale tra sanitario e sociale, non solo non corrisponde alle logiche del nuovo sistema di integrazione sociosanitaria, ma non contribuisce alla ufficializzazione della professione ed all’individuazione chiara dei percorsi di formazione.


2.5 Il futuro: le nuove disposizioni riguardanti l'Interfacoltà
Per intraprendere la professione di educatore professionale è necessario conseguire la laurea triennale Interfacoltà in Educazione professionale che abilita alla professione nei settori sanitario e sociosanitario.
L’accesso al corso di studi è programmato: bisogna essere in possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado e superare un test di ammissione, comune a tutti i corsi di laurea appartenenti alla Classe L/SNT02 – Lauree delle professioni sanitarie della riabilitazione 9 e stabilita annualmente dal MIUR (Ministero dell'Istruzione, dell' Università e della Ricerca) con una serie di domande volte a valutare le capacità logiche e d'interpretazione dei testi dei candidati, nonché le conoscenze alcune discipline quali cultura generale, biologia, chimica, fisica e matematica.

Nei tre anni è previsto un periodo di tirocinio obbligatorio, che rappresenta una parte fondamentale del percorso formativo dello studente e ha come obiettivo l’acquisizione delle competenze professionali.

Il corso è attivato presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, in collaborazione con le facoltà di Scienze della Formazione e Psicologia.

L'apertura del nuovo anno accademico 2011-2012 porterà con sé una serie di novità riguardanti il futuro dell'educatore professionale e la sua formazione. Il Corso Interfacoltà in Educazione professionale dovrà adeguarsi, al pari di altri indirizzi delle professioni sanitarie, alle nuove disposizioni del Decreto ministeriale 270/04 modificando la propria offerta formativa secondo le nuove linee direttive stabilite per le professioni sanitarie triennali.


 

 
Con questo provvedimento si perde definitivamente il regime di Interfacoltà del corso introdotto in origine dal Decreto del Ministero della Sanità 520 /98: dal punto di vista formale, infatti, non è più prevista la compartecipazione al Corso di diverse Facoltà (Scienze della formazione o Scienze dell'educazione e Psicologia), condizione da sempre ritenuta fondamentale e fondante per la preparazione dell’educatore professionale. Questo significa che l’intero iter formativo dell’educatore dipenderà dalla sola Facoltà di Medicina e Chirurgia, senza il concorso, appunto, di altre Facoltà, come stabilito precedentemente.

Tuttavia, la direzione del Corso è riuscita a mantenere in sostanza lo stesso assetto didattico e la stessa impostazione organizzativa, preservando così la componente pedagogica-relazionale e continuando a incentivare un tipo di formazione multidisciplinare, caratteristiche entrambi essenziali per la professione. Anche se non saranno più titolari del Corso, come in precedenza, le Facoltà di Scienze della Formazione e di Psicologia si sono impegnate a collaborare e a mettere a disposizione i loro docenti. La stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia ha introdotto tra i requisiti indispensabili per l’attivazione del Corso la partecipazione di altre Facoltà, a sottolineare proprio l'importanza della coesistenza di diversi saperi per una formazione adeguata e completa che tocchi i diversi ambiti di esperienza nel quale è inserito l'educatore.

L'importanza di questo concetto viene anche ribadita nell'articolo di Angelo Nuzzi "Il cantiere formazione" di Animazione Sociale, secondo il quale:

"per la formazione dell’Educatore professionale, nel DM 520/98 e nel DM 3-04-2001 appare una specifica rilevante e obbligatoria: il concorso di più Facoltà. Questa condizione è legata al riconoscimento dell’Educatore professionale come figura sociale e sanitaria, attento nell’approccio alle persone in condizione di "fragilità", alla dimensione della globalità e della specificità della relazione educativa, come strumento principe del proprio operare, oltre che all’azione socio-educativa che caratterizza l’intervento professionale nelle strutture sociosanitarie, riabilitative, educative e nel territorio".

Tornando all'organizzazione del Corso la multidisciplinarità permarrà, ma la dicitura "Interfacoltà" scomparirà dalla denominazione del Corso per Educatori professionali e questo muterà sicuramente la formazione degli educatori professionali in molte regioni d’Italia.

Per quanto riguarda la realtà del Corso in Educazione professionale dell’Università di Torino il nuovo Piano di Studi conserva l’impianto culturale degli anni precedenti introducendo alcune novità:

l’inserimento di alcune discipline di carattere sanitario (anatomia umana, farmacologia, diagnostica per immagini e radioterapia), rese obbligatorie dalle nuove direttive.

l’implementazione delle ore e dei crediti (ben 60 sui 180 complessivi) riservati al tirocinio, elemento questo da considerarsi in maniera positiva.

L’impianto teorico viene ridotto a favore del tirocinio, ma non in modo così sostanziale: il rapporto CFU/ore di lezione in aula, infatti, passa dalle attuali 6 ore per CFU a 10 ore per CFU; il monte ore complessivo di studio dello studente diventa, pertanto, più consistente e l’impegno necessariamente maggiore.

E' da precisare che il nuovo ordinamento entrerà in vigore gradualmente, un anno alla volta; quindi, nell’anno accademico 2011/12 il nuovo piano di studi verrà attivato solo nel 1° anno del Corso, mentre nei restanti due anni rimarrà in vigore il piano di studi precedente.

Inoltre è necessario rivolgere attenzione alla grossa parte che ancora rimane, di operatori impiegati in strutture sanitarie senza titolo abilitante, che si vedono costretti ad intraprendere in autonomia, senza tutele e supporti istituzionali e spesso a seguito di pressioni dei datori di lavoro, la strada verso la riqualificazione della professione resa possibile solo dall’iscrizione regolare al Corso in educazione professionale.

Queste nuove disposizioni porteranno ad un impoverimento notevole dell'area educativo-pedagogico-relazionale nella formazione dell'educatore a favore di quella sanitaria-medica che trova terreno fertile nella collocazione esclusiva del Corso sotto la Facoltà di Medicina e Chirurgia.


Molte associazioni di categoria (tra cui l'ANEP) si sono mosse per contrastare l'inserimento nel comparto medico dell'educatore proprio per il rischio che questa professione indebolisca le sue principali competenze di base, quali quelle educative-relazionali-pedagogiche, e limiti il proprio spazio d'azione a favore di un irrigidimento in senso medicalizzante.

La riflessione rimanda quindi a chiedersi quale tipo di educatore si intende formare e quale tipo di professionalità deve essere acquisita dai professionisti del settore educativo.