Penso sia carino introdurre il tutto con
questo estratto dal libro "resistere è creare"
Sabatino Annecchiarico – Di fronte alla stanchezza e alla
frustrazione per le tante sconfitte storiche contro il modello di vita
capitalistico, tu proponi un diverso modo di “resistere” in una società
capitalistica, fuori dagli schemi della sinistra tradizionale: una forma di
resistenza “creativa”, in grado di portare cambiamenti “qui e ora”. La parola
“resistenza” ha sempre avuto per noi tutti un senso profondo e forte; qual è
oggi il nuovo significato che dai a questa azione?
Miguel Benasayag – Resistere, in questo caso, non ha il significato di
resistere a un’occupazione, per esempio la resistenza francese all’occupazione
tedesca o quella del popolo argentino alla dittatura militare. La resistenza
cui faccio riferimento è piuttosto un modo di vita. Qui la resistenza è una
posizione esistenziale, una resistenza precisa in un dato periodo storico.
Diciamo che quando si vive un periodo storico delimitato, come un’occupazione
straniera o una dittatura, l’obiettivo è chiaro: si finisce di resistere quando
i motivi per farlo sono finiti e si ritorna alla vita “normale”, alla vita di
prima.
Invece la resistenza al capitalismo, al neoliberismo, così come la resistenza
alla tristezza della nostra società, non può essere pensata come una resistenza
che preveda uno scontro. In tutti gli scontri del secolo scorso,
indipendentemente che si vincesse o si perdesse, abbiamo visto che in nessun
caso, nemmeno quando si é vinto, ciò è stato sufficiente per dar vita a
qualcosa di nuovo. Sicuramente questa è stata una delle cause del disastro del
Novecento: pur con il trionfo di molte rivoluzioni e con la vittoria di molte
elezioni da parte della sinistra, non si è mai potuto o semplicemente non si è
mai saputo cosa fare perché ci fosse un cambiamento nella società. Si era a
quei tempi concentrati sullo scontro e sulla presa del potere. L’idea
naturalmente non è quella di abbandonare lo scontro, va oltre, bisogna
catturarlo. Però non si può pensare al capitalismo, alla società e alla
tristezza attuale solo in termini di scontro senza un’effettiva forma di
resistenza immediatamente associata all’idea della creazione del nuovo, qui e
ora.
[…]
..No,no,no,no..
Questa non è una conferenza,
non è un seminario..
Questo è un incontro di guerra!!
COSA STA SUCCEDENDO PERCHÉ SIAMO QUI??
Siamo in un momento in cui per fare valere
i nostri diritti, per rivendicare una certa idea di società prima ancora di una particolare idea di
professione, siamo costretti a scendere in piazza. Però ciò che appare chiaro,
che tu e tutti noi sappiamo benissimo, è che non basta scendere in piazza per
ottenere qualche cosa, anzi, ogni tanto si ha proprio l’impressione che tutti
questi sforzi non servano a nulla!
Come facciamo a fare sentire la nostra
voce??
Cedo ora la parola agli studenti
dell’Interfacoltà, che meglio di me possono spiegarti il senso dell’averti
invitato qui a condividere la tua esperienza con noi, a riflettere insieme su
questioni importanti per la loro e la nostra possibilità di azione futura.
(professor Paolo Bianchini)
Piacere sono Roberto e volevo raccontarti
un po’ cosa è successo a noi studenti del Corso di Laurea in Educazione
Professionale. Quest’anno è stato totalmente azerato il budget destinato al
finanziamento delle attività professionalizzanti nel nostro iter formativo. Mi
riferisco alle lezioni integrative ed ai tutoraggi del tirocinio che, essendo
tenuti da professionisti già operanti nel mondo dei servizi, ci permettevano di toccare con mano quella che sarebbe stata
la nostra professione futura. Beh
(ahinoi) abbiamo scoperto e sperimentato sulla nostra pelle ciò che tutti i
giorni sentiamo al telegiornale: i tagli, la mancanza di soldi e tutte
queste cose inerenti alla famigerata crisi che fino ad allora non
avevamo percepito come reali, nel senso di riguardanti la nostra personale
esperienza e vita in questo mondo.. cose di cui fino ad ora, sentendone parlare
comodamente dal divano di casa nostra, non avevamo capito la gravità.
Ci siamo allora mobilitati organizzando una
serie di iniziative anche un po’ creative, un flash mob davanti al palazzo
delle Regione ed un mail bombing costante e pressante, per chiedere un po’
delle spiegazioni rispetto a questi tagli. Addirittura Cota o chi per
esso, ci ha risposto assicurandoci che
tuttora le integrative e gli spazi di tutoraggio sono ritenuti imprescindibili
per lo sviluppo di una professionalità equilibrata. Purtroppo però i vincoli di
bilancio e la scarsità di risorse economiche, impediscono di poter spendere un
centesimo nella nostra formazione, volendo garantire prima di tutto la
sopravvivenza dei ben più utili ed indispensabili servizi presenti sul
territorio piemontese.
Effettivamente possiamo “ritenerci
fortunati” : abbiamo avuto una risposta, ma questo non ci basta!
Non vogliamo essere solo parte di un
rendiconto finanziario, voci in un documento di pianificazione economica da
depennare al primo sentore di crisi. Siamo operatori sociali e vorremo che
venisse riconosciuto il ruolo importante che ricopriamo all’interno della
società.
Non abbiamo intenzione di interrompere la
nostra mobilitazione, e vorremmo confrontarci con te a riguardo.. vorremo che
ci dessi un tuo parere personale rispetto questa situazione.
Sai,
le tue parole sono interessanti e sollevano una questione davvero importante!!
Hai parlato dell’incontro tragico con il mondo lontano di cui avete sentito
parlare solo nei telegiornali, che dalla
comodità della vostra poltrona domestica, non vi aspettavate potesse toccarvi
così da vicino.
Beh
io penso che il fatto di creare distanza tra il mondo reale e le concrete
esistenze delle persone, è il principale dispositivo per produrre incapacità di
agire, impotenza. In sostanza noi abbiamo preoccupazioni più o
meno gravi, ma il nostro immediato è sempre altro rispetto all’immediato del
mondo. Abbiamo un po’ questa concezione che il mondo sia qualcosa di cui si
occupano solo i grandi, le “persone importanti” come Berlusconi, Sarkozy e via
dicendo. Noi ci sentiamo davvero piccoli in confronto a questa dimensione,
abbiamo sì delle opinioni, anche molte opinioni, ma sono completamente
disconnesse dall’epoca storica in cui viviamo.
Beh
ribadisco, questo è il dispositivo fondamentale su cui si costruisce l’
impotenza nella nostra epoca.
Ci
terrei ora a fare una piccola parentesi per
spiegare la differenza tra due concetti che ci permetteranno una più
facile comunicazione, introducendo una base di significati comuni funzionali ad
una migliore comprensione reciproca.
Vorrei
marcare la distinzione tra ciò che consideriamo tragico, e ciò che consideriamo
grave. Grave è un fatto che può colpire la mia vita, può colpire la tua, ma che
sicuramente non è percepito come un qualcosa che tocca le vite di tutti: è un
avvenimento che non crea legame tra le persone. Tragico è invece un avvenimento
che l’umanità intera sente come riguardante la propria vita. Quando parliamo di
cose tragiche, ci riferiamo a quel particolare modo di intendere gli
avvenimenti della nostra epoca, come qualcosa che ci riguarda; un problema che fa parte della nostra vita.
Raggiungo la dimensione tragica quando considero la mia vita attraversata
dall’epoca storica cui appartengo.
Ora
vorrei che riflettessimo insieme su ciò che è un dato di fatto: le autorità a
cui ci rivogliamo per lamentarci e chiedere spiegazioni di situazioni che
riteniamo gravi, hanno in testa il principio dell’economicismo, che credono
coincida con il principio regolatore dell’insieme: pensano di avere il giusto
punto di vista per cogliere nell’intero la realtà concreta. Ai loro occhi
quindi la nostra voglia di rivendicazione, appare solo come una delle tante in
un mondo in cui ciascuno ritiene che la sua causa sia la più importante e
meritevole di giustizia.
In
questa situazione rischiamo di fare un po’ la figura degli ingenui: certo noi
affermiamo con forza la nostra importanza ma del resto come tanti altri. Tutti
pensano che la propria situazione sia la più importante.
Dobbiamo
prendere atto che nella nostra società esiste un nuovo dio capriccioso dell’Olimpo,
l’economicismo, che può schiacciare le persone con una freddezza disumana . La
situazione è così e non possiamo fare altro che prenderne atto. In questo
contesto perciò resistere, lottare significa non fermarsi solo ad affermare
SONO INDIGNATO. Fermandoci a questo
livello, potremo cadere nella trappola di una posizione narcisista ed impotente: io sono indignato perché penso che
il mondo debba essere altro. Ma dal punto di vista del potere attuale non c’è
un altro mondo possibile a lato di quello in cui si può decidere
arbitrariamente di tagliare i fondi al sociale.
Dobbiamo
resistere prendendo coscienza che questa è la realtà e possiamo lottare in due
modi differenti:
1-da
un lato possiamo bloccarci a pensare che il nostro lavoro è fondamentale e
davvero troppo importante per essere eliminato, possiamo assistere increduli ed
impotenti alla sua distruzione da parte del potere. Reazione che tra
l’altro, non ci porta da nessuna parte.
2-oppure
possiamo accettare il fatto che in quanto studenti futuri operatori sociali,
siamo vittime di una realtà che avanza, che è irreversibile e che il nostro
lavoro è completamente immerso in essa. La vostra reazione deve essere perciò
all’altezza di questa realtà. Non basta indignarsi per la mancanza di fondi da destinare
alle integrative ed ai tutoraggi di tirocinio: non bisogna opporsi solo ai
tagli effettuati, ma combattere la politica che sta alla base di questi tagli.
Voi
siete operatori sociali, ed il racconto che vi viene somministrato, è che
lavorate per integrare gli esclusi e gli emarginati ma questo non è
assolutamente vero! Loro non sono emarginati o esclusi: occupano un preciso
posto all’interno di una società che va verso l’apartheid concreto. Faccio un
esempio perché capiate meglio che cosa intendo. In Brasile esistono molto i quartieri murati
con le guardie armate e di fianco le favelas. Sono un po’ due mondi che si
sfidano, che sono in guerra l’uno con l’altro. C’è apartheid perché per esempio
avere l’appendicite all’interno di Fortaleza è una cosa considerata gravissima,
ma le morti all’interno delle favelas sono normali, fanno parte del
quotidiano. L’apartheid è proprio
questo: pensare che tutte le vite non
valgano lo stesso. In questa situazione,
anche il povero, lo straniero senza documenti o il senza fissa dimora hanno un
preciso posto all’interno della società.
Dobbiamo
VEDERE e CAPIRE ciò che è il mondo. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che
proprio in rapporto all’andamento del mondo il nostro è un lavoro impossibile..
Come
integrare l’escluso?
Beh,
se ci fermassimo a riflettere davvero, ci renderemo conto che in realtà escluso
non è, in quanto questa definizione
corrisponde solo ad un determinato modo di organizzare ed intendere una
società. Dunque in che cosa consiste il
lavoro sociale? Possiamo aspettare e
tranquillizzare colui che soffre o
possiamo creare un luogo di resistenza con l'altro. Creare e produrre luoghi
dove siamo imbarcati insieme , luoghi che sono una resistenza al modo globale
di interpretare la realtà.. questa è la vera sfida!!
Io sono
completamente d’accordo con te quando affermi che dal proprio divano, ciascuno
si sente impotente di fronte agli
avvenimenti di una realtà più globale,
sicuramente ciascuno di noi è schiavo di questo meccanismo.. mi han
toccato profondamente le tue parole perché questa situazione mi appartiene
sotto vari punti. Man mano negli anni, il sentimento che matura è la rabbia, è
la collera che poi viene soppressa nel quotidiano da tutte le piccole
preoccupazioni personali che ciascuno di noi deve portare avanti: la scuola dei
figli, il lavoro, la famiglia.. si ha un po’ la sensazione che la vita ti
sfugga di mano, mentre le cose davvero importanti rimangono da parte. Un’altra
questione che mi pare pericolosa, è che nonostante si organizzino
manifestazioni, si cerchi di organizzarsi per concretizzare azioni di protesta,
è un po’ come ci fosse sempre un diavoletto a sussurrarci nell’orecchio che
tanto qualsiasi cosa faremo non servirà a nulla perché il potere è troppo forte.
Quello che mi
chiedo è quanto è giusto protestare sotto la forma della democrazia e quanto
invece è più necessario, anche se un po’ anacronistico, me ne rendo conto,
prendere come modello la guerriglia armata del Che, la protesta di Martin
Luther King o di Gandhi.. insomma, quanto uno deve fare sul serio per cambiare
la situazione?? Mi viene da interrogarmi perché guardando indietro, mi rendo
conto che negli anni ’80 succedeva un po’ lo stesso riguardo alle
manifestazioni perciò io mi chiedo, saremo sulla giusta strada??
Io capisco che il motore primo sia la rabbia per le
ingiustizie a cui assistiamo inermi tutti i giorni.. ma la cosa che dobbiamo
fare più di tutto è trovare quelle pratiche che permettano di superare la
separazione tra noi come individui e l’epoca
storica. Io ho fatto parte della guerriglia armata contro i militari per 10
anni, certo 4 e mezzo in carcere, ma comunque siamo andati avanti dieci anni. E
la cosa che ci tengo a chiarire è che in quegli anni abbiamo scelto una precisa
modalità di lotta e resistenza non perché fosse l’unica possibile, ma di sicuro
era l’unica che ci permetteva di vivere le nostre vite in relazione all’epoca
storica in cui eravamo inseriti. C’è anche però da dire che in quegli anni
esisteva un rapporto decisamente più organico tra il mondo e le nostre vite,
cosa che invece oggi si riscontra assente in tutti i campi dell’umana
esistenza. Io penso che oggi la resistenza parta dal non farsi travolgere dal
quotidiano che satura le nostre preoccupazioni.
Attenzione però, questo non deve essere un processo di
ascesi personale: deve essere un processo che passa per produrre modi di vita,
legami ed esperienze diversi in cui poco a poco noi saremo “capabili” di vivere
essendo toccati dal mondo e non
idealmente separati da quest’ultimo. Mi spiego meglio: innanzitutto ho parlato
di guerriglia contro la polizia, i militari, ma la verità è che non abbiamo mai
sparato un colpo contro la democrazia. Il
nostro modo di lotta, la questione della guerriglia, aveva una dimensione
tragica perché io , mia moglie, mio fratello abbiamo preso la decisione di
portare avanti la resistenza armata
accettando il fatto che le nostre vite fossero attraversate dall’epoca in cui
vivevamo, che non ci fosse separazione tra di esse. Beh io dico allora che RESISTERE oggi, significa
soprattutto creare esperienze di luoghi dove la gente possa sperimentare il
legame con la propria epoca, dove si smetta di parlare delle cose che sembrano
urgenti, per parlare delle cose che sono davvero importanti. Dove si riesca a
resistere alla trappola dell’urgenza, per dedicarsi alla creazione di un luogo
pratico dove costruire un punto di vista differente, dove le persone possano
sperimentare che il mondo non è solo quella cosa lontana che si vede alla tv ma
esiste qui ed ora, e noi ne facciamo parte. Dobbiamo provare ad essere adulti e
non aspettare che qualcuno ci salvi.
Piacere sono
Vittoria.
Beh come si vede
dalla platea non siamo solo studenti, ma ci sono anche molti di noi che
provengono dal mondo del lavoro e che sanno
molto bene di lavorare con persone che sono un po’ “schiacciate”. Il problema è
che queste persone stanno nella gravità
tecnica, non nella tragedia, il problema è che noi operatori sociali stiamo
nella gravità al loro fianco, ma la
vediamo solo noi. Nonostante il nostro
lavoro consista in parte nel fare emergere queste situazioni all’attenzione di
tutti, è un compito che risulta sempre
più difficile. Facciamo un lavoro che rischia sempre un po’
di raccontarsi solo a sé da sè, non passa oltre: chi ci conosce è perché ha un
ragazzo seguito da un educatore, o la
persona disturbata che vive in casa e che quindi ci vedono all’opera. Non a
caso ciò coincide anche con i livelli dei nostri salari che rimangono molto
bassi. Bhè se c’è una domanda che vorrei farti è proprio questa: come fare sì
che il nostro lavoro diventi più visibile, emerga di più ??
Sempre di più il mondo va verso la complessità, perciò
appare anche sempre più chiaro come sia impossibile creare oggi un modello di
emancipazione valido globalmente. Penso che se siamo in grado oggi di
incontrare persone colpite da questo disagio, che abbiano voglia e siano
“capabili” di assumere la sfida di capire la propria situazione, capire che
cosa voglia dire agire, se siamo capaci di trovare un piccolo gruppo di poveri,
di esclusi, di operatori sociali che abbiano voglia insieme di dire BASTA,
adesso noi proviamo a capire la nostra situazione, la vogliamo contestualizzare
e vogliamo proporre concretamente le
cose che dobbiamo fare.. se siamo in grado di fare tutto ciò, la resistenza ha inizio. E’ un po’ quello che
è successo in Argentina con la crisi: si sono creati dei mondi di solidarietà
diversi, legali e non (ma noi in fondo dobbiamo seguire solo la legittimità che
a volte ahimè, coincide con l’illegalità).
Dobbiamo essere in grado di produrre queste esperienze
minoritarie in cui la gente sia capace di uscire dalla gravità tecnica per
arrivare alla dimensione tragica e cioè contestualizzata al problema. Se non
siamo in grado di fare ciò, la catastrofe è inevitabile. Non dobbiamo
promettere nulla alle persone, non dobbiamo attendere nulla! Oggi la nostra situazione sociale è così, se
non siamo in grado di uscire dal circolo vizioso dell’impotenza creando queste
piccole realtà locali dove poco a poco la gente è in grado di raggiungere una
maggiore consapevolezza sulle proprie vite in relazione all’epoca storica, il
disastro è inevitabile. La sfida è grande perché si tratta di una vera e
propria rivoluzione culturale: noi siamo formati per arrivare in una realtà con
competenze precise per vedere le situazioni gravi ed in quanto tecnici,
risolverle con il metodo migliore. La rivoluzione sta proprio in questo!!
Non dobbiamo più considerare l’extracomunitario senza
documenti, escluso dal campo profughi come una situazione grave chiusa in sé.
Questo postura mentale è ciò che segna la frontiera tra l’oppressione ed
l’emancipazione. Dobbiamo assumere che la sua situazione è tragica, che
riguarda anche me, è la mia situazione. Si tratta di produrre micro luoghi di senso, di resistenza, di
altro modo di rapporto verso la vita. Se
riusciamo a fare ciò la resistenza comincia. E’ difficile perché significa
uscire dal luogo della normalità ideale per assumere il luogo della normalità
dipartita. E’ una grande frontiera, ma è quella che mi dice che non sono un
tecnico che si occupa di cose gravi; sono una persona che invita l’altro ad
assumere che la nostra situazione debba essere vissuta e capita dal punto di
vista del senso TRAGICO DEL LEGAME.
Sapete dobbiamo renderci conto che l’educatore non è un ALTRO nella situazione di apartheid
sociale: nei paesi civilizzati
l’operatore sociale non è che il “dispositivo” pensato all’interno di
una società per trattare le situazioni di disagio.
Una volta c’era la dimensione tragica che
faceva sì che IL PROBLEMA venisse un po’ percepito da tutti. Però c’è anche da
dire che esisteva delle ideologie che legavano gli uomini come un collante
fortissimo, e soprattutto un’organizzazione del lavoro fisico che permetteva di
vedersi continuamente, di coltivare rapporti personali che poi duravano anche
al di fuori dei luoghi di lavoro. Oggi questi due elementi non esistono più e
creare connessioni così forti tra le varie persone, considerando anche i
livelli di precarietà altissimi di questi tempi, diventa sempre più difficile.
Tant’è che le uniche cose forti sono quelle un po’ virtuali create dai mezzi di
comunicazione. Sono mie riflessioni che mi piacerebbe discutere
insieme..(Roberto)
Tu
hai parlato della scomparsa di due elementi: una forte ideologia e luoghi
fisici come condizione per produrre legame. In particolare modo la scomparsa
delle ideologie forti non è stato un incidente di percorso, ma il corollario
inevitabile della fine di quell’epoca che siamo soliti nominare Modernità. L’ideologia
è infatti sempre un racconto che accompagna un modo di rapporto reale con il
mondo, non è mai un qualcosa di immaginario ma una scienza che sta nella
realtà, coincide sempre con un modo reale di organizzare il mondo..
Sinceramente, lo ammetto, non mi piace
molto la storia della fine delle ideologie, mi pare un po’ debole. Mi pare un
racconto che evita di rendersi conto del fatto che non ci troviamo in un
momento storico e antropologico incredibile, non ci troviamo alla fine di un
epoca, intesa come un rapporto reale con il mondo, ed il comincio di
qualcos’altro.. in più il nostro lavoro non è reinventare il mondo, occuparsi
delle ideologie. Sono tutte cose che
emergono da sole, che accompagnano la pratica. Il nostro lavoro è produrre
empiricamente il luogo del legame.. ed effettivamente ora dobbiamo ripensare a
quali siano questi luoghi dove riterritorializzare la vita che è diventata
assolutamente virtuale, che passa dalla tv che passa da internet. L’uomo post
moderno è un uomo pieno di informazioni ma nella maggior parte dei casi, senza
l’esperienza diretta delle cose: il meccanismo di impotenza di cui stavamo
parlando prima appunto.
Mi
spiego meglio. In questa ottica parlare di riterritorializzazione della vita,
significa pensare di creare dei luoghi in cui
poter esperienziare un po’ di più la mia vita, sperimentare,
riconnettere la vita al territorio cui appartiene. Attenzione non sto parlando
necessariamente di un luogo fisico, ma del territorio del legame, fatto da
persone che condividono una stessa realtà.
La territorializzazione passa dal
rendersi conto di che cosa sono attraversati i territori.
Ovviamente
questo luogo non può necessariamente essere internet: è uno strumento di grande
aiuto per ciò che riguarda la gestione della rete di organizzazione. Ma la rete
di organizzazione vera e propria deve essere concreta con le persone che sono
colpite e toccate per questa realtà.
Se
vogliamo operare questo cambiamento bisogna partire da una riflessione sul
proprio lavoro. Nella nostra normalità dobbiamo creare un ruolo di resistenza,
non di rabbia ma di alternativa.
Il giorno in cui dalla Regione ci hanno
comunicato la mancanza dei soldi per il finanziamento delle attività
integrative del Corso in Educazione Professionale, mancavano 5 giorni all’inizio delle lezioni. In questo modo ci hanno impedito di organizzarci per
trovare soluzioni alternative. In fondo chi governa non ha la consapevolezza
del dramma che le proprie azioni possono creare, perciò vive la faccenda con un
estrema superficialità, non c’è empatia. La funzionaria regionale che ci ha
comunicato la nefasta notizia, mi ha detto esplicitamente: “Professore non si
preoccupi in fondo è giovane. Provi ad usare la fantasia!”. La prima reazione
fu una rabbia tremenda, poi pensandoci bene ho capito che mi aveva dato davvero
un buon consiglio. Abbiamo la
possibilità di dimostrare che possiamo davvero creare qualcosa di nuovo a
partire da questa situazione di crisi. Badate bene, non sto parlando solo di
fantasia e creatività, ma anche e soprattutto di impegno, tempo ed energie da
investire. Si tratta di darci il tempo per ripensare ai luoghi ed alle persone
con cui viviamo per dargli un senso nuovo; partire da pezzi che ci sono già per
renderli attivi in una maniera differente.
Di sicuro non dobbiamo creare piccoli mondi ideali ed
alternativi di resistenza che piano piano si riproducano fino a creare un mondo
diverso. Questa è una bugia enorme. Non possiamo fare nulla per invertire la
realtà e dobbiamo avere il coraggio di ammettercelo. Oggi in questa epoca
oscura, l’unica maniera possibile di lavorare per la libertà è creare dei
piccoli luoghi alternativi di resistenza, che impediscano all’oscurità di
guadagnare tutto. Io in quanto operatore sociale devo occuparmi della realtà
ritenendomi parte di essa. Badate bene che questa nostra epoca è sì oscura e
pericolosa, ma può essere anche molto gioiosa e molto interessante, perché è soprattutto nelle epoche oscure che
si può costruire in profondità ed in complessità. Questo però solo per chi è in grado di
assumere la responsabilità di riflettere sulle maniere possibili per
VIVERE, e non solo per sopravvivere . La responsabilità di assumere la
conoscenza del contesto che è fondamento della mia vita. Senza considerare le
proprie vite come attraversate ed immerse nell’epoca storica in cui
viviamo, non possiamo arrivare da
nessuna parte. La vera resistenza passa dalla creazione in forme molteplici, di
legami di solidarietà. Significa creare e sviluppare contropoteri e
controculture. Significa creare qui ed ora, relazioni e forme alternative da
parte di collettivi, di gruppi e di persone che attraverso una militanza che
coinvolga l’esistenza (e qui proprio per sottolineare il carattere serio
dell’impegno concreto), sappiano andare oltre il capitalismo. Immaginare
scenari diversi. Proprio per questo anche io penso che la fantasia e la
creatività siano elementi necessari,
anche se ovviamente non sufficienti.
Ho trovato molto
interessante questo tuo ultimo intervento. Io sono un operatore sociale e mi
viene da chiedermi: di cosa mi devo occupare allora? Della questione economica,
del mio lavoro, dei significati profondi di quest’ultimo? Sai penso anche alle
differenti strategie che si possono mettere in atto. Parlando con il professor Bianchini ci siamo
detti: facciamo lo stesso lezione anche se i fondi non arrivano; diamo a questa
azione un significato politico. Ovviamente non si può lavorare gratis
all’infinito ma penso che in questo determinato periodo storico, con questi
presupposti, anche come atto dimostrativo sarebbe importante portare avanti
un’iniziativa di questo tipo. Dico che
sarebbe importante perché io ho l’idea che dovrebbe essere la Cultura a
prendere in mano le redini del gioco e sovvertire un po’ questo rapporto di
forza economia/cultura. Non vorrei stravolgere i principi marxisti della
struttura e della sovrastruttura, ma penso davvero che in determinati periodi
storici, sia compito della Cultura lavorare per creare legami sociali, questo É un modo per creare legami
sociali. Io faccio questa proposta per iniziare a rispondere alla domanda che
si pone il problema sul che cosa fare.
Bhè iniziamo a fare lezione lo stesso, anche senza soldi. Non ci pagano,
PAZIENZA! Magari in un secondo momento ci arriveranno i soldi, magari no. Io
farei questa proposta. Che dite voi?? (Francesco Garzone)
Ora do un consiglio da vecchio combattente. In ogni tempo
per affrontare un potere che attacca, bisogna rispondere nel luogo in cui non
siamo in una condizione di debolezza. Per esempio se l’attacco è sul piano
economico, rispondere con una
pianificazione economica significa rimanere in una posizione di debolezza. In
America Latina gli indiani dicono: noi siamo morti perciò non abbiamo nulla da
negoziare con voi. Questa è una posizione che fa una paura terribile al potere
perché è come dire che non abbiamo limiti, non abbiamo nulla da perdere. Cosa
vuole dire io sono morto? Vuole dire che non ho assolutamente voglia di
organizzare la mia reazione nell’asse in cui tu sei potente, voglio
organizzarla nell’asse in cui IO sono potente. Tu mi attacchi sul piano
economico.. bene!! Vorrà dire che io non mi occuperò più di soldi. Vogliamo parlare solo della vita. Non siamo
d’accordo con questo ordine, allora creiamo questo luogo di resistenza in cui
la nostra rivendicazione non lascia nelle mani dell’altro la possibilità di
realizzare, assolvere ed appagare questa
nostra necessità. La nostra domanda deve
assolutamente eccedere l’ALTRO. Equivale a dire che l’altro non ha la possibilità di possederti. Questo è
il senso della nuova radicalità, e senza questa idea, non siamo in grado di
ottenere nulla!!
A parte grazie,
perché è sempre bello ascoltare certe parole! Io volevo raccontare
un’esperienza. Sono Erica e non a caso, sono
qui con buona parte della mia equipe di lavoro. Sono fermamente convinta che la creazione di
questi luoghi di condivisione sia davvero possibile, anche qui in Italia.. ed
allora è giusto e importante anche dirselo che tutto ciò è possibile, per non
finire sempre a raccontarci quello che ci fa arrabbiare e mai quello che
ci può far sperare un po’ di più.
Lavoriamo in un centro diurno per persone con problemi psichiatrici
oramai da 15 anni. Ne abbiamo passati davvero tanti a chiederci come mai,
nonostante le persone con cui lavoravamo fossero le ultime delle ultime, non si consideravamo
minimamente tra di loro: se uno aveva un problema gli altri non lo vedevano
nemmeno. Ad un certo punto è successa una microrivoluzione. Un po’ per gioco,
un po’ per sfida, un po’ perché era sempre più complesso il nostro lavoro, essendo sempre meno operatori e sempre più
utenti abbiamo proposto questa esperienza che abbiamo chiamato giornata
all’incontrario. Per cui per un giorno abbiamo invertito i ruoli: noi abbiamo fatto
gli utenti, e loro hanno gestito tutto il giorno la struttura in autonomia,
hanno gestito le attività e fatto tutto ciò che noi facciamo quotidianamente.
Questo è successo un anno fa. Al di là del fatto che siamo arrivati a fine
giornata capendo di essere pieni di pregiudizi (noi che pensavamo di avere
menti così aperte), al di là del fatto che i nostri ragazzi hanno fatto un
lavoro meraviglioso, sono cambiate delle cose. E’ cambiato il modo di
relazionarci gli uni con gli altri, sono cambiati i legami. La giornata
all’incontrario non esiste più o meglio, è diventata una pratica quotidiana,
una sorta di spazio permanente in cui
lavoriamo insieme su dei temi significativi:
come si costruiscono le relazioni, come si fa a stare meglio.. ma sempre
INSIEME. E da questi spazi le nostre belle etichette per cui io sono
l’operatore, sono quello che ne sa e ti dico come si deve fare, non esistono
più. Stiamo male tutti insieme, facciamo
fatica tutti insieme e tutti insieme cerchiamo di costruire una maniera per
stare un po’ meglio. Sono cambiate anche
le relazioni tra di loro: sempre più
spesso passiamo per i corridoi e sentiamo gruppetti di persone che si chiedono
come sta l’altro e come possono fare per darsi una mano.
Ora un’altra cosa su cui ci interroghiamo e
come fare a creare un’uscita dallo spazio del centro diurno. Sai tutti stanno
bene però non riusciamo mai a farli uscire.
Beh oggi ci dicevamo che forse non ha senso, forse è giusto così.. forse
allora la prospettiva può essere quella di aprire le porte e di fare entrare le
persone.
Comunque il senso
del mio intervento è portare una testimonianza concreta del fatto che ci si
arrabbia, le cose sono difficili da conquistare, ma creare luoghi di resistenza
di questo tipo è possibile, anche se siamo in Italia.
Ci tengo a fare una piccola parentesi che mi ha suggerito
il tuo intervento. Spesso la tristezza di quando facciamo esperienze
alternative sta nella comprensione del fatto che il cambiamento dei rapporti di
forza non è oggi possibile. Ciononostante dobbiamo accettare questa condizione,
continuare a costruire lentamente e non arrenderci. Dobbiamo assumere che la
resistenza è una cosa seria e non dobbiamo cadere nel pessimismo narcisista di
chi voleva cambiare il mondo e, prendendo coscienza di quanto nulla sia mutato,
rinuncia alla sua lotta . Un po’ come quei militanti sinistroidi che vedendo
infranti i loro sogni di cambiamento, passano dalla parte del capitalismo. Bè
questa è una forma incredibilmente superficiale di intendere l’attivismo. Tutto
ciò per dire che questa plusvalenza di tristezza è causata proprio dal nostro
narcisismo, non dalla complessità della realtà. Dopo di questo in rapporto alla
psichiatria tutto ciò assume una sfumatura interessante.
La sofferenza psichica ha un germe di dissidenza. Cioè è la
maniera che molte persone trovano per dimostrare il loro dissenso rispetto
all’ordine della vita. Perciò è molto
importante non comportarsi come un tecnico che va a schiacciare questo dolore. E’ come il lavoro che ciascuno di noi deve fare nella
propria vita: assumere questo sentimento senza volerlo a tutti i costi
eliminare. Quello che noi in psichiatria diciamo sempre alle persone con cui
lavoriamo, è che non ci sono alternative: o una
cosa la facciamo insieme oppure non facciamo nulla. E’ importante che
entrambi percepiamo di essere nella stessa situazione. Chiedere all’altro di
offrirci passivamente la sua sofferenza perché noi, come tecnici possiamo
occuparcene, vuole dire riprodurre e approfondire il meccanismo d'impotenza e
dipendenza di cui sino a qui abbiamo parlato.
Ci deve essere un momento in cui insieme si accetta la presenza di
questo sentimento negativo, cercando di capire da che cosa sia provocato; non
dobbiamo eliminarlo come se fosse tutto negativo, ma capire qual è la sua
origine. In questo mondo che va verso l’apartheid, dobbiamo eliminare le
differenti etichette. Dobbiamo iniziare a percepire quanto tutti siamo parte
della stessa realtà, e creare dei luoghi in cui “imbarcarsi con l’altro”,
rivendicando spazi alternativi di resistenza all’oscurità della nostra epoca.
Beh che dire..
forse dopo tutti i seminari che abbiamo fatto sulle competenza che deve avere
un educatore professionale, stiamo iniziando a riflettere sulla cosa giusta,
ossia quale sia il senso di questo lavoro qui ed oggi!!