lunedì 6 febbraio 2012

Tesi di Elisa Casetta (Capitolo 1): Le evoluzioni delle politiche sociali, la nascita e lo sviluppo dell'Educatore Professionale


Secondo appuntamento con la tesi di Elisa Casetta.
Dopo aver pubblicato la settimana scorsa l'indice e l'introduzione, ecco a voi il primo capitolo; buona lettura!




CAPITOLO 1

Le evoluzioni delle politiche sociali, la nascita e lo sviluppo dell'Educatore Professionale
Come nel resto dell’Europa, anche in Italia la storia del Welfare State inizia nel Settecento sotto forma di beneficenza pubblica in risposta ai bisogni legati alla sussistenza, per poi connotarsi come previdenza sociale dopo la rivoluzione industriale e, successivamente, come sicurezza sociale a partire dalla seconda metà del Novecento.

Al momento della nascita del Regno d’Italia l’assistenza sociale è ancora fondamentalmente concentrata sui poveri e su alcune altre fasce deboli, ed è sostanzialmente affidata alla carità privata erogata tramite associazioni e fondazioni quasi esclusivamente di matrice cattolica.

Con la Legge Crispi del 1890 tutte le "opere pie" esistenti vengono tramutate in istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB). Durante tutto il fascismo vengono realizzati diversi interventi in campo previdenziale e assistenziale, e si assiste alla progressiva creazione di una molteplicità di enti dedicati a singole categorie di volta in volta emergenti.

Ma è solo con la Legge 833/1978, "Legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale", che si sviluppano quelle idee guida sulle quali, più avanti, si fonderanno le proposte di riforma socio assistenziale.

Si tratta, infatti, di una riforma sanitaria che per la prima volta si centra sulla concezione universalistica del diritto alla salute per tutta la popolazione e che poggia sulle idee di prevenzione delle malattie e del disagio sociale e di lotta all’emarginazione, di integrazione tra servizi sociali e sanitari e di programmazione, di partecipazione del cittadino e di informazione sui bisogni di questo e, infine, di decentramento.

La stessa legge contiene al suo interno un rimando esplicito alla necessità di una legge che riformi parallelamente l’ambito degli interventi sociali sull’impronta dell’approccio culturale e politico della riforma sanitaria; tuttavia, nonostante la successiva produzione normativa in ambito socio assistenziale sia molto ricca ed ispirata a quelle stesse idee guida del 1978 bisogna riconoscere che essa non raggiunge la completezza e la chiarezza ottenuta invece con la riforma del settore sanitario.

Soltanto nel 2000, con l’approvazione della Legge 328, "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", si ha la svolta davvero importante nei servizi di welfare. Superando il concetto di beneficenza della legge Crispi, la legge quadro definisce una cornice di valori e principi, obiettivi e diritti, nuovi, verso i quali l’Italia deve muoversi. In particolare, per quanto riguarda il riassetto dei meccanismi redistributivi, la Legge 328/00 sostiene il superamento di un sistema di interventi riparativi ed assistenzialistici, prevalentemente monetari, disomogenei e gestiti dallo Stato centrale, a favore di un "sistema di protezione sociale attiva", in cui le prestazioni sono orientate alla prevenzione ed hanno lo scopo di intervenire anche per eliminare le cause del disagio promuovendo le risorse individuali del cittadino, rispettano degli standard essenziali e sono regolate da Enti locali e Regioni.

L'obiettivo di questo capitolo è dunque quello di fornire un breve quadro dello scenario socio legislativo che ha accompagnato negli ultimi anni i servizi sanitari, socio sanitari e socio assistenziali in Italia.


1.1 Il quadro normativo della legislazione dei servizi alla persona
Prima di analizzare brevemente le fasi più significative dell’evoluzione dei servizi alla persona negli ultimi anni, è necessario fare alcune precisazioni.

La definizione "servizi alla persona" è recente, in passato le forme d’intervento si possono riassumere con i termini: beneficenza, sanità, assistenza. L’attuale assetto dei servizi sociali e sanitari è infatti regolato da un’insieme di provvedimenti legislativi evolutisi nel tempo; in particolare nell’ultimo decennio si è assistito a cambiamenti sollecitati da profonde trasformazioni sociali e dall’emergere di nuove problematiche ed istanze di bisogno di alcune fasce della popolazione e di nuovi soggetti aventi diritto.

Siamo in presenza di un sistema complesso ed articolato in via di continua definizione ed aggiornamento.


Su queste motivazioni si fonda la scelta di raggruppare il decennio preso in esame in tre fasi relative all’approvazione di norme quali:

il decentramento di compiti e funzioni dello Stato a Regioni ed Enti locali (la riforma Bassanini);

la riforma "ter" della sanità;

il processo di riforma dell’assistenza


1.1.1 La riforma Bassanini

I recenti cambiamenti hanno interessato in primo luogo l’ordinamento degli Enti di Governo (Stato, Regioni e Comuni). Con la seconda metà degli anni novanta si è infatti aperto un ciclo politico in cui il sistema dei servizi alla persona tende sempre più ad inserirsi nel quadro del decentramento istituzionale. Tale processo si è avviato con il gruppo delle "leggi Bassanini", così denominate per il nome del ministro della Funzione pubblica che le ha promosse. Le leggi di riferimento fondamentali sono: L.59/1997, L.127/1997, D.lgs.112/1998. La L. 59/1997 istituisce la

"Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa"
e impone in particolare due principi:
La semplificazione delle procedure amministrative e dei vincoli burocratici alle attività private
Il
federalismo amministrativo, cioè il perseguimento del massimo decentramento realizzabile con legge ordinaria, senza modifiche costituzionali.

Dal D.lgs.112/1998 è possibile, invece, assumere qualche criterio generale utile alla comprensione delle funzioni dei servizi alla persona.

La L.127/1997 accompagna alla riforma del decentramento quella della semplificazione amministrativa con l'obiettivo di ridisegnare l'organizzazione e il funzionamento dell'amministrazione pubblica con particolare riferimento a quella locale. Il decreto definisce i "servizi sociali" come "tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario (…)".

Inoltre il Decreto prevede l’attribuzione allo Stato delle funzioni legislative di indirizzo, di programmazione dei criteri generali per l’attuazione a livello locale della rete di integrazione sociale, di definizione degli standard dei servizi sociali da ritenersi essenziali, nonché di determinazione dei profili professionali degli operatori sociali. Alle Regioni vengono trasferite le funzioni ed i compiti amministrativi dei servizi sociali relativi a sette aree: minori, giovani, anziani, famiglia, portatori di handicap, tossicodipendenti e alcoldipendenti, invalidi civili. Ogni Regione provvede ad individuare le funzioni, relative alle aree citate, da trasferire o delegare ai Comuni e ad altri Enti locali. Alle Regioni è conferito inoltre il compito di promuovere e coordinare le strutture che agiscono nell’ambito dei servizi sociali: cooperazione sociale, volontariato. Il decreto prevede l’attribuzione ai Comuni dei compiti di erogazione dei servizi e delle prestazioni sociali, nonché i compiti di progettazione e realizzazione della rete dei servizi sociali. È quindi evidente che l’attuale ordinamento istituzionale tende a trasferire ai Comuni tutte le funzioni in materia di servizi sociali.

Si assiste al passaggio da un ordinamento uniforme su tutto il territorio nazionale ad un sistema di Enti locali con regole di funzionamento differenti tra loro in rapporto alle esigenze territoriali.

Ai Comuni ed alle Province vengono trasferiti i compiti relativi all’organizzazione dei servizi di supporto, a quelli dell’istruzione nei confronti di alunni con handicap, alla promozione di iniziative in ordine all’educazione degli adulti, agli interventi di educazione alla salute.

In conclusione, si può affermare che i Comuni abbiano progressivamente ampliato le loro responsabilità nel settore socio assistenziale, giungendo oggi a svolgere le seguenti funzioni: sviluppo dei processi di aggregazione sociale tra cittadini ed associazioni, assistenza domiciliare di tipo sociale, assistenza abitativa ed economica, asili nido, centri diurni socio educativi per portatori di handicap, assistenza ai minori, inserimento sociale e lavorativo dei soggetti in difficoltà, sviluppo di servizi residenziali e di comunità alloggio.




1.1.2 La "terza" riforma sanitaria
Con la legge n.833/78 che istituisce il Servizio sanitario Nazionale, si apre un momento decisivo per l’avvio di un processo di riforma globale dei servizi: processo che ha visto successive fasi di riforma.

Negli ultimi anni, si è infatti assistito al progressivo delinearsi di nuovi assetti della sanità.

La seconda e terza riforma del Sistema Sanitario Nazionale (D.lgs.502/92 e 229/99) avviano il processo di aziendalizzazione dei soggetti deputati all’assistenza sanitaria. Si assiste alla progressiva riduzione del numero delle USL (Unità Sanitaria Locale), attraverso accorpamenti territoriali decisi dalla Regione ed all’avvio della trasformazione dell’USL stessa da "struttura operativa dei comuni singoli o associati" ad Azienda Sanitaria "dotata di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica".

Diventa inoltre possibile l’aziendalizzazione di diverse tipologie di ospedali, con il riconoscimento della loro autonomia amministrativa ed organizzativa. La seconda riforma del Sistema Sanitario Nazionale (D.lgs.502/92) introduce il sistema della delega per ciò che attiene l’erogazione dei servizi sociosanitari.

Viene infatti previsto che l’Unità Sanitaria locale (USL), diventata ora ASL, possa assumere la gestione di servizi socio assistenziali con delega da parte degli Enti locali.

Con l’approvazione del decreto legislativo 229/99 , si prosegue su tale linea di indirizzo, contemplando l’utilizzo della delega da parte dei Comuni per ciò che concerne la gestione dei servizi sociosanitari.

L’attuale quadro normativo prevede, però, nuove regole di connessione tra ASL e Comuni. E’ importante evidenziare che, accanto alla riorganizzazione della legislazione sanitaria, che prevede che l’ASL possa "assumere la gestione di attività o servizi socio assistenziali su delega dei singoli enti locali con oneri a totale carico degli stessi (…)" , si innesta la legge nazionale che stabilisce le competenze comunali in materia. Secondo tale legge "spettano al Comune tutte le funzioni amministrative (…) nei settori organici dei servizi sociali (…) salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze".

Il quadro istituzionale attuale prevede:

la titolarità del Comune in materia di servizi sociali, che può esercitare o delegare all' ASL;

la titolarità dell' ASL in materia di servizi sanitari e sociosanitari integrati nelle aree delle tossicodipendenze e dei servizi psichiatrici.

Il decreto legislativo 229/99 sancisce un ritorno più preciso al tema dell’integrazione sociosanitaria con l’individuazione di livelli differenziati di prestazioni sanitarie a rilevanza sociale (attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione), prestazioni sociali a rilevanza sanitaria (attività dei servizi sociali che supportano la persona in difficoltà, con disabilità), prestazioni ad elevata integrazione sanitaria (attività con particolare rilevanza terapeutica e componente sanitaria).


 

Per la prima volta, con il riordino della sanità, viene riconosciuto il principio per il quale "istituzioni ed organizzazioni non a scopo di lucro concorrono alla realizzazione dei doveri costituzionali di solidarietà, dando attuazione al pluralismo etico culturale dei servizi alla persona" .

L’approvazione della riforma "ter" della sanità stabilisce un nuovo rapporto tra soggetti pubblici e privati attraverso l’introduzione dell’autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie e l’accreditamento.

Quest’ultimo può essere definito come: "procedimento attraverso cui i diversi soggetti pubblici e privati, previa verifica del possesso di requisiti strutturali, tecnologici, organizzativi e di qualità previsti nelle normative nazionale e regionali, possono accedere ai finanziamenti del Servizio sanitario nazionale". Tale strumento risponde all’esigenza di selezionare gli erogatori mediante criteri fondati sulla qualità dell’assistenza e si configura come mezzo di regolazione del mercato sanitario.

Si riafferma il diritto, già costituzionalmente garantito (art.32), alla tutela della salute e si assiste ad un ritorno alla programmazione attraverso strumenti quali il Piano Sanitario Nazionale ed il Piano Sanitario Regionale.

Il D.lgs.229/99 prevede l’istituzione dell’area delle professioni sociosanitarie e la definizione dei livelli di formazione continua per il personale sanitario e sociosanitario con l’istituzione della Commissione nazionale per la formazione continua, e la definizione dei livelli di formazione manageriale.


1.1.3 La riforma italiana dell'assistenza: la legge quadro 328/00

La riforma del sistema socio assistenziale varata con la legge 328/00, può essere considerata il primo intervento legislativo organico che ha la finalità primaria di riorganizzare il sistema socio assistenziale.

Si può comunque affermare che alcuni provvedimenti legislativi specifici, nella seconda metà degli anni ’90, hanno aperto la strada alla legge 328; in primo luogo la L. 285/97 che aveva lo scopo di promuovere diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, in secondo luogo il D.lgs 237/98, che regolava l’introduzione sperimentale dell’istituto del reddito minimo di inserimento in alcune aree territoriali del Paese; la riforma del 2000 è portatrice di queste esperienze precedenti e le comprende al suo interno. La legge 328 è la base su cui si vuole costruire un sistema socio-assistenziale ricco di innovazioni, fondato sull’integrazione fra attori, servizi e settori di welfare, sul principio di sussidiarietà sia verticale, tra i diversi livelli istituzionali, vale a dire i Comuni, le Province, le Regioni, lo Stato, dando importanza maggiore al livello più basso, quindi al livello municipale, sia su quello di sussidiarietà orizzontale, tra i diversi soggetti di welfare, in particolare tra Comuni, ASL e terzo settore, per lo sviluppo del welfare locale. I valori sui quali si fonda e di cui si fa promotrice la legge 328 dunque, sono l’uguaglianza, l’universalismo dei diritti, la dignità umana, la libertà, la solidarietà, la democrazia, con particolare riferimento alla partecipazione attiva dei cittadini, delle associazioni sindacali, e soprattutto delle organizzazioni del terzo settore alla programmazione, alla co-progettazione delle nuove politiche sociali.

Le finalità generali definite nella legge quadro vengono elencate nell’articolo 1, comma 1 e sono:

la creazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali;

la promozione di interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza;


la prevenzione, l’eliminazione, la riduzione delle condizioni di disabilità, bisogno e disagio individuale e familiare derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia.L’approvazione del testo unico sui servizi alla persona segna un passaggio innovativo teso a garantire una maggiore unitarietà di interventi nel quadro di riferimento dei servizi alla persona.

Le già citate leggi Bassanini, accanto alla riforma "ter" della sanità, introducono infatti notevoli cambiamenti sia in ordine alla ridefinizione di compiti e funzioni degli Enti locali, sia per quanto concerne l’integrazione sociosanitaria. A dar compiutezza al disegno programmatorio ed organizzativo dei servizi alla persona mancava dunque la legge quadro sull’assistenza.

La realizzazione del sistema integrato richiede l’avvio di un profondo cambiamento culturale nella società. La legge 328/00 propone un sistema in cui il cittadino non è solo utente, le famiglie non solo portatrici di bisogni, il sapere non è solo professionale, l’approccio non è solo riparativo e gli interventi sociali non sono opzionali. Al contrario, il sistema integrato di interventi e servizi sociali deve essere progettato e realizzato a livello locale promuovendo la partecipazione attiva di tutte le persone, potenziando i servizi alla persona, favorendo la diversificazione e la personalizzazione degli interventi,valorizzando esperienze, risorse esistenti e professioni sociali.

In altri termini, il sistema integrato si sviluppa lungo una linea di riforma che vede il passaggio da interventi categoriali ad interventi rivolti alla persona ed alle famiglie, da prestazioni predefinite a prestazioni flessibili e diversificate fondate su progetti individualizzati e personalizzati, da politiche per contrastare l’esclusione sociale a politiche per promuovere l’inclusione sociale. Il nuovo sistema mira a costruire coesione nelle comunità locali, favorendo, dal lato dell’offerta, interventi e modelli organizzativi che promuovono ed incoraggiano la libertà e, dal lato della domanda, la cittadinanza attiva e le iniziative di auto e mutuo aiuto.


Viene quindi tutelato il diritto a star bene e ad essere membri attivi della società; il sistema integrato promuove infatti la solidarietà sociale attraverso la valorizzazione delle iniziative delle persone, delle famiglie, delle forme di auto-mutuo-aiuto, nonché della solidarietà organizzata.

L’attuazione di un sistema integrato di servizi presuppone una complessa interazione tra soggetti pubblici e privati.

La primaria responsabilità della programmazione e dell’organizzazione del sistema integrato è attribuita agli Enti locali, alle Regioni, allo Stato secondo l’ordine di maggiore vicinanza al cittadino.

I diversi soggetti privati possono fornire servizi ed assumere un ruolo attivo nella progettazione e realizzazione degli interventi.

I Comuni permangono titolari delle funzioni relative ai servizi sociali offerti a livello locale (scelta già presente nel citato D.lgs.112/98), ma promuovono azioni per favorire la pluralità dell’offerta dei servizi, garantendo il diritto di scelta tra gli stessi.

Non v’è dubbio che nel corso degli anni ’90 sia andata maturando la consapevolezza del ruolo e della funzione dei soggetti definiti, secondo un’espressione anglosassone, no-profit. La significatività raggiunta sul piano sociale dal Terzo settore, riconosciuta dalle forze politiche e sociali, conduce infatti in questi anni all’approvazione della legge quadro sul volontariato e la legge sulla cooperazione sociale .

La L.328/00 riconosce questi soggetti soprattutto quali produttori ed erogatori di servizi sociali, assumendo quindi il concetto di welfare mix, ovvero la co-gestione, la co-produzione e co-programmazione dei servizi da parte del privato, del privato sociale e del pubblico. Viene superata l’idea per la quale i soggetti del Terzo settore rappresentano semplici erogatori di servizi e si procede verso un modello di società solidale che si auto organizza. La legge quadro 328/00 individua, quale strumento per la realizzazione del sistema integrato, il piano di zona (PDZ) il cui obiettivo è promuovere l’elaborazione della programmazione locale dei servizi sociosanitari e sociali, coinvolgendo tutti i soggetti pubblici e non, attivi in un territorio.

Il Piano di Zona è lo strumento mediante il quale vengono annualmente concordate, tra Enti locali ed altre agenzie territoriali, le linee di sviluppo dei servizi. Il Piano, contenente bisogni rilevati sul territorio, obiettivi strategici, servizi ed interventi prioritari, soggetti e modalità gestionali, rappresenta un’ulteriore fonte per l’analisi dettagliata della domanda di educatori professionali.

Lo strumento previsto per l’adozione del PDZ è l’accordo di programma (ADP). Quest’ultimo è, infatti, definibile come: "l’istituto giuridico individuato per realizzare una rete di relazioni tra loro coordinate, una condivisione di obiettivi e procedure di intervento e un accordo tra i soggetti coinvolti per i rispettivi oneri in termini di risorse umane e finanziarie".

L’accordo di programma è, in altri termini, finalizzato a coordinare i diversi soggetti pubblici, unitamente a tutti quei soggetti che concorrono alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

I soggetti, le categorie chiamate a "partecipare" (la modalità di coinvolgimento prevista dall’art.1, comma 4 è, infatti, la partecipazione) appartengono al cosiddetto Terzo settore di cui fanno parte: cooperative sociali, associazioni di volontariato, enti di promozione sociale. L’ampliamento delle categorie di attori coinvolti nella realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali conduce ad interrogarsi attorno a quale ruolo attribuire ad essi nel processo di programmazione ed erogazione.

In conclusione, l’obiettivo della legge 328 che preme di più sottolineare è quello riguardante la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali, che può essere creato attraverso lo sviluppo di una programmazione partecipata dei servizi socio assistenziali a livello locale, vale a dire mediante la nascita di partnership, di relazioni strutturate tra soggetti istituzionali e organizzazioni del terzo settore per una cooperazione attiva e una definizione condivisa di obiettivi, ruoli e responsabilità.



1.2   I "servizi alla persona"
Le riforme degli anni novanta hanno modificato notevolmente la storia dei servizi. La riforma sanitaria, che ha introdotto nuovi modelli gestionali e la trasformazione delle USSL in aziende, ha sviluppato nei servizi sociali la volontà di perseguire modelli operativi più attenti alla qualità del servizio ed all’efficacia delle prestazioni. La riforma relativa al decentramento ha riposizionato ruoli, responsabilità ed obiettivi di Stato ed Enti locali.

L’aumento delle responsabilità ha condotto la Pubblica Amministrazione ed i suoi operatori, non solo a progettare, ma anche ad assumere funzioni di controllo dei risultati come fase costitutiva della progettazione stessa.

La presenza e la legittimazione di nuovi attori delle politiche sociali, come quella del Terzo settore, ha poi accelerato la spinta al cambiamento, muovendo verso modelli di "welfare mix" ed attribuendo al settore pubblico il ruolo di indirizzo, coordinamento e regia del sistema dei servizi e di garante nei confronti del cittadino.

Nelle linee di riforma della "legge quadro per la realizzazione di interventi e servizi sociali" i servizi si aprono non più soltanto ai soggetti in difficoltà, ma alla generalità della popolazione; da questa legge, infatti, emergono i requisiti costitutivi della nozione di servizio.

La programmazione di un sistema a più protagonisti implica una nozione di servizio quale produttore di relazioni e generatore di partnership, intese come "(…) meccanismi regolativi che consentono momenti di progettualità condivisa tra gli attori di un processo decisionale nella definizione degli obiettivi da perseguire e dei mezzi da utilizzare per il loro raggiungimento" . La legge promuove lo sviluppo di un welfare locale che sia "plurale", quindi promotore dell’integrazione fra attori, della localizzazione dei servizi sul territorio e infine della partecipazione attiva dei diversi soggetti sia pubblici sia del terzo settore alla costruzione delle nuove politiche sociali.

L’orizzonte dei servizi alla persona appare oggi in profondo cambiamento, espressione di evoluzioni politico legislative e culturali, promettente ed incerto allo stesso tempo.

Si tratta di ricomporne le coordinate, definirne le prospettive di sviluppo valorizzandone e scoprendone il potenziale, di evidenziarne le influenze sulla professione di educatore.

Il campo della professione dell’educatore viene indicato con varie espressioni: servizi sociali, sociosanitari, socio educativi, servizi alla persona, servizi territoriali.

Al termine "servizio" viene spesso aggiunto quello di interventi, per includere anche il lavoro che non viene esercitato all’interno di un’unica organizzazione ma a cavallo tra più servizi (per esempio il lavoro di rete), che mette insieme prestazioni professionali svolte in servizi e luoghi diversi. Nello specifico, con l'espressione "servizi alla persona" si intendono tutte le unità d’offerta che mirano a sviluppare e garantire ai cittadini i diritti fissati dalla nostra Costituzione.

L’utente, a cui i servizi si rivolgono, viene oggi sempre più percepito nei termini di "cittadino" o "cliente". Si tratta di un’evoluzione, non solo terminologica, colloca all’interno della rivoluzione che ha trasformato l’immagine della persona in stato di bisogno, un tempo vissuta come individuo debole, in cittadino, che partecipa alle spese delle prestazioni e cliente del servizio. Per cogliere, seppur in sintesi, le origini dei servizi alla persona, come fenomeno socialmente rilevabile nel contesto della modernità, occorre ripercorrerne la più recente storia. Dall’origine dei primi servizi ad oggi sono sorte numerose forme organizzative per rispondere a fenomeni sociali sempre nuovi. Negli anni settanta sono individuabili i primi servizi creati per accogliere persone che uscivano da istituzioni chiuse: manicomi, orfanotrofi, cronicari per anziani poveri. Furono create comunità alloggio, comunità terapeutiche, centri diurni, case famiglia, day hospital, laboratori educativi. Il processo di de-istituzionalizzazione avvenuto in questi anni in Italia, ha portato alla costituzione di riforme tese all'ampliamento e alla costruzione di nuovi servizi alla persona e di un nuovo modo di ripensare al lavoro di cura.


La L. 180/ 78 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori" è la prima ed unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Prima della riforma dei servizi psichiatrici le strutture manicomiali erano spesso connotate come luoghi di contenimento sociale, dove l'intervento terapeutico e riabilitativo scontava frequentemente le limitazioni di un'impostazione clinica che si apriva poco ai contributi della psichiatria sociale, delle forme di supporto territoriale, delle potenzialità delle strutture intermedie, e della diffusione della psicoterapia nei servizi pubblici.

La legge 180 cambiò notevolmente il modo di operare nel sociale attraverso la nascita di strutture territoriali volte alla prevenzione, riabilitazione e cura del soggetto psichiatrico , al riconoscimento dei diritti e la necessità di una vita di qualità e al sostegno e sviluppo delle potenzialità di ognuno. Importante fu anche l'emanazione della L. 149/01 «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», ha stabilito, tra le altre cose, la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre del 2006. Gli istituti per minori erano strutture residenziali che accoglievano grandi numeri di minori in stato di abbandono, con situazioni familiari difficili o con disabilità fisiche o mentali. Con questa riforma si stabilisce che il ricovero in istituto deve essere superato mediante affidamento a una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. Alcuni di questi istituti saranno quindi convertiti in strutture chiamate "comunità alloggio", con caratteristiche residenziali e di tipo familiare che, secondo gli standard sulle strutture assistenziali dettati dalla norma dell'art. 1 della L. 328/00, possono accogliere fino a dieci ospiti, con due posti letto in più per le emergenze.




Negli anni ottanta ritroviamo le prime esperienze riguardanti i servizi per le tossicodipendenze, principalmente per far fronte alla forte emergenza rappresentata dall'abuso di eroina.

Con la L. 685/75 "Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza" viene introdotto per la prima volta il concetto di tossicodipendenza come malattia che necessita di cura. Successivamente con il DPR 309/90 convertito, con modificazioni, nella L. 49/06 "Testo Unico sugli stupefacenti" viene riproposta la visione del tossicodipendente come malato, tanto che al Titolo XI si parla di "Interventi preventivi, curativi e riabilitativi".

I Ser.T (Servizi per le tossicodipendenze) si propongono come le prime strutture pubbliche, in alternativa ai già esistenti centri privati di riabilitazione, a cui però non tutti potevano accedere e mirano ad offrire oltre che un supporto farmacologico, anche un sostegno psicologico e motivazionale alle persone che vogliono interrompere l'assunzione di sostanza, accompagnando il soggetto nell'intero processo di riabilitazione.

Negli stessi anni nascono anche i servizi domiciliari, oggi ampiamente diffusi. Il luogo della "cura" si è spostato a casa del cittadino: minori, anziani privi di autonomia, disabili, malati lungodegenti, ma anche famiglie in difficoltà che necessitano sostegno nello svolgimento della funzione genitoriale. Lo spostamento verso il domicilio comporta un cambiamento profondo nel modo di lavorare degli operatori: orari, ma soprattutto, cultura e linguaggio professionale.

Questo approccio necessita infatti una lettura della vita quotidiana come sede dei legami spontanei, dove sono i cittadini assistiti che creano l’ambiente con regole e valori ben definiti.

Il professionista non può "calare dall’alto" le proprie logiche, pena la perdita totale dell’efficacia, ma deve interagire con i soggetti ed insieme a loro trovare soluzioni. Questo cambiamento di prospettiva ha dato vita ad altri servizi che hanno iniziato a prendere in considerazione l'ambiente socio culturale delle persone e a lavorare all'interno di esso. Il territorio viene inteso come ambiente che sviluppa senso di appartenenza: compito dei servizi e degli operatori è fornire ai cittadini gli strumenti per organizzarsi e produrre utilità sociali. Altre novità sono nate alla fine degli novanta, con la nascita di ulteriori servizi che si reggono sui metodi tipici della consulenza: saper accogliere le domande più varie, personalizzare il dialogo, offrire risposte individualizzate.

Il campo della professione educativa è dunque molto vasto e differenziato.

In ogni territorio il tempo ha stratificato servizi antichi e nuovi, servizi da riconvertire e servizi sperimentali, che devono ancora consolidare metodi di lavoro e competenze adeguate.




1.2.1 Le Carte dei Servizi

Un aspetto rilevante, nel disegno della nuova organizzazione dei servizi, è il ruolo attivo, di "auto-promozione", cui la normativa sollecita i cittadini, le famiglie e le organizzazioni sociali. L’art.13 della L.328/00 che introduce l’obbligatorietà delle Carte dei Servizi rappresenta, quindi, uno tra punti più rilevanti del nuovo sistema. La "Carta dei Servizi" è il mezzo attraverso il quale qualsiasi soggetto che eroga un servizio pubblico individua gli standard della propria prestazione, dichiarando i propri obiettivi e riconoscendo specifici diritti in capo al cittadino utente consumatore.

Attraverso la Carta dei Servizi i soggetti erogatori di servizi pubblici si impegnano, dunque, a rispettare determinati standard qualitativi e quantitativi, con l’intento di monitorare e migliorare le modalità di fornitura e somministrazione. Tale orientamento comporta ricadute nelle pratiche operative dei servizi. Ogni Comune, in quanto responsabile dell’offerta dei servizi sociali, deve adottare una propria Carta nella quale saranno i suoi orientamenti e le sue possibilità.

Al fine di favorire una certa omogeneità, le Carte devono avere un nucleo di contenuti comuni.

In particolare, è necessario che, almeno per i tipi di prestazioni più diffuse, alcuni indicatori siano definiti a livello nazionale, ferma restando la possibilità di integrarli in sede locale e, soprattutto, fermo restando l’esclusiva responsabilità delle amministrazioni comunali nella determinazione degli standard di qualità.

Il processo di formulazione delle Carte assume particolare rilevanza; esso fornisce "(…) una preziosa occasione di coinvolgimento della collettività, con la quale potranno essere confrontati i principi a cui si ispirano le strategie di offerta e negoziati gli standard di qualità e gli strumenti in caso di mancato rispetto. Così facendo si potrà dar corpo all’affermazione secondo la quale le Carte costituiscono un patto tra i Comuni e i cittadini".

La Carta rappresenta quindi "(…) uno strumento di tutela dei cittadini e di crescita organizzativa", poiché consente di instaurare una comunicazione intensa tra attori diversi. Si possono, attraverso essa, costruire linguaggi comuni e sviluppare processi organizzativi orientati al miglioramento del lavoro sociosanitario.

In generale, le Carte dei servizi dovrebbero assolvere a tre funzioni:

la tutela del cittadino, attraverso azioni informative mirate alla conoscenza dei diritti e delle opportunità di rimborso;

lo sviluppo della partecipazione, attraverso il coinvolgimento delle associazioni di tutela dei cittadini, nella valutazione dei servizi;

il miglioramento della qualità delle prestazioni, attraverso la periodica e documentata realizzazione di valutazioni circa la qualità dei servizi e l’ipotesi di future azioni migliorative.




Riguardo al contenuto informativo (ai fini della tutela), ogni Carta dovrebbe comunicare agli utenti: la mappa dei servizi e delle risorse istituzionali e sociali, i livelli essenziali di assistenza previsti, gli standard di qualità da rispettare, le forme di tutela dei diritti (in particolare dei soggetti deboli) e le regole da applicare in caso di mancato rispetto degli standard.

Riguardo alla seconda funzione, quella partecipativa, ne è già stata sottolineata la rilevanza nell’ambito del processo di costruzione di ogni Carta. In riferimento alla terza funzione, relativa al miglioramento della qualità delle prestazioni, potremmo dire che si tratta del "cuore" degli strumenti di garanzia e qualità. Essa consente la realizzazione di tutte le altre sue funzioni; se, infatti, gli enti erogatori di prestazioni esplicitano gli standard di qualità per il miglioramento dei servizi, questo produce, nei singoli territori, effetti benefici nella direzione della qualità dell’intervento, della tutela del cittadino e della sua partecipazione.

La legge 328/00 stabilisce inoltre che l’adozione della Carta dei servizi sociali, da parte degli erogatori, è condizione per il loro accreditamento. Tale previsione indica che anche i gestori dei servizi, in quanto diversi dalle amministrazioni comunali, devono dotarsi ognuno di propria Carta.

Le Carte dei soggetti in questione devono contenere impegni nei confronti dei Comuni riferiti al possesso di strumenti ed al rispetto di regole di

funzionamento coerenti con un effettivo orientamento alla qualità.



1.3 La nascita e lo sviluppo dell'Educatore Professionale

L’evoluzione della figura professionale dell'educatore è stata consistente e rapida. Sino alla fine degli anni sessanta l’educatore, non ancora denominato con il termine "professionale" è stato presente pressoché solo negli istituti: perlopiù si trattava di personale religioso o volontario.

Oltre tutto non esisteva un percorso formativo di base per svolgere tale funzione, ad esclusione della scuola del Ministero di Grazia e Giustizia.

Nel corso del periodo 1960 1990 è fortemente cresciuto il numero di chi svolge la professione in contesti extra scolastici ed è, contemporaneamente, cresciuto l’impegno per il riconoscimento e la legittimazione della professionalità e della sua formazione di base.

Nel 1983 una Commissione nazionale, istituita presso il Ministero dell’Interno, riconosceva la rilevanza della figura dell’educatore professionale per il sistema dei servizi sociali e sanitari ed auspicava una sua legittimazione con la conseguente definizione ed articolazione del piano di studi di base e dei processi di ingresso nel mondo del lavoro. Attualmente esistono circa una settantina di scuole di formazione attivate da Università (17 corsi di studi distribuiti in Italia in "Interfacoltà Educazione professionale") e da Regioni (scuole regionali gestite da enti locali, da Asl e da enti privati convenzionati), distribuite in modo non omogeneo sul territorio nazionale. I lavoratori italiani che lavorano nel sociale sono circa 25.000 di cui circa 5.000 diplomati presso corsi di formazione a durata triennale.

Occorre prendere atto però che quanto si è realizzato in questi ultimi vent'anni per portare a piena legittimità e riconoscimento sociale e culturale la figura professionale dell’educatore non ha prodotto, sinora, risultati soddisfacenti. Nonostante la Commissione ministeriale del 1983 abbia sollecitato una disciplina di questa figura, la situazione complessiva, sia per quanto riguarda il riconoscimento del profilo e dell'iter formativo, sia per quanto attiene le condizioni e le possibilità di impiego, appare oggi sempre più confusa e incerta. Un profilo dell'educatore professionale appare chiaro solo nell'ambito sanitario, grazie al D.m 520/98 che definisce un profilo delineato nel comparto sanitario e una formazione valida a livello nazionale, mentre per quanto riguarda l'ambito socio educativo rimangono aperte numerose questioni.


"(...) Di fatto ci troviamo di fronte a due profili professionali di educatore, con competenze e funzioni per certi versi sovrapponibili, formati da diversi corsi di laurea e non equiparabili dal punto di vista normativo: l'educatore professionale, inserito tra le figure professionali del personale sanitario, della riabilitazione per il quale esiste una definizione giuridica del ruolo; e l'educatore sociale che lavora in una pluralità di servizi a carattere socio educativo e culturale ambientale per il quale non esiste alcun riconoscimento giuridico normativo.

La complessità del lavoro dell'educatore e la vivacità della richiesta di questa figura professionale da parte del mondo del lavoro, necessiterebbero, invece, di un profilo professionale unico che si differenzia e si specializza a seconda del contesto in cui l'educatore si trova ad operare"

Si riscontra, infatti, una notevole divaricazione tra una domanda crescente, nella società, di azione educativa e pedagogica e la posizione della figura dell’educatore professionale in una situazione di sostanziale debolezza nel quadro delle professioni sociali. E’ una situazione, questa, che non riguarda solamente chi dovrà inserirsi nei servizi, ma anche molti di coloro che già si sono collocati nel mondo del lavoro, in condizioni sovente di precarietà ed incertezza.




1.3.1 L'Educatore Professionale all'interno delle riforme delle politiche sociali
Se il sistema cambia, se le politiche sociali si modificano, se si modificano le reti dei servizi, è inevitabile che l’educatore si trasformi.

La riforma sanitaria, che ha introdotto nuovi modelli gestionali e la trasformazione delle USSL in aziende, ha contribuito a incrementare nei servizi e nella professione dell’educatore la consapevolezza della necessità di progettare e definire programmi che non rispondano solo all’emergenza, ma anche alla promozione del benessere sociale.

L’affermazione del nuovo modello di welfare misto conduce, da una parte, i servizi a rileggere la propria organizzazione interna e, dall’altra, costringe la professione ad interrogarsi circa i nuovi compiti da svolgere e le necessarie competenze da implementare. Si richiederà, infatti, sempre più all’educatore la capacità di definire non solo progetti individualizzati rivolti a soggetti in situazioni di bisogno, ma sarà necessario acquisire competenze specifiche da spendere nel processo di assunzione, da parte degli Enti locali, del ruolo di indirizzo, programmazione e coordinamento di tutte le istituzioni, pubbliche e private, della rete dei servizi sociosanitari e del volontariato.

La sfida che devono affrontare gli educatori è quella di costruire una rete compatta e coordinata, tale da ridurre il più possibile le demarcazioni tra un servizio e l’altro, avviando in tal modo un processo di costruzione di servizi che raggiungano direttamente il cittadino.

Si tratta di un processo di cambiamento e di implementazione di competenze già cominciato, come emerge anche dal report della ricerca "L’educatore: evoluzioni della professione e nuovi modi di pendersi cura" condotta dall’ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali) in collaborazione con CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) ed Animazione Sociale, in cui si enuncia proprio il cambiamento e l'ampliamento del raggio d'azione dell'educatore.

Nell'articolo, infatti, si parla di come l'educatore non si prenda più solo carico delle singole persone in difficoltà, ma analizzi le situazioni dei gruppi, anche in un'ottica di prevenzione e di promozione dell'ambiente in cui persone e gruppi vivono. Inoltre si fanno strada nuove competenze dell'educatore sempre più necessarie per attuare un intervento completo, quali la progettazione educativa, sociale e organizzativa, il manegement di cooperative e la promozione della formazione.

Alla luce delle considerazioni sinora fatte, risultano evidenti le connessioni tra le evoluzioni delle politiche sociali e l’evoluzione dell’educatore.

E’ quindi importante dettagliare le implicazioni dei provvedimenti legislativi considerati, così da disegnarne la mappa completa.




1.3.2 La professione dell’Educatore nella riforma "ter" della sanità e nella legge quadro dei servizi alla persona
La riforma del comparto sociale, legge 328/00, pone tra i punti qualificanti del sistema integrato l’indicazione per la definizione dei profili professionali e dei piani di studio della formazione, nonché gli indirizzi per l’aggiornamento e la formazione continua. L’articolo 12, "Figure professionali sociali", collocato nel capo II, "Assetto istituzionale e organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", affronta la questione vincolando il Ministro per la solidarietà sociale ad emanare un decreto, in accordo con altri Ministri interessati (della sanità, del lavoro, della previdenza sociale, della pubblica amministrazione, della pubblica amministrazione, dell’università), entro centottanta giorni dalla entrata in vigore, che definisca i profili professionali delle figure che dovranno operare nel sistema integrato.

La recente modifica del Titolo V della Costituzione, annoverando le professioni sociali tra le materie di legislazione concorrente, ne ha poi attribuito la potestà legislativa alle Regioni, salvo la determinazione dei principi fondamentali che resta di competenza legislativa dello Stato.

Dal dettato della legge si evince che il legislatore definirà, con apposito regolamento, quali saranno le figure professionali da formare con corsi di laurea di competenza dell’università, quali con corsi di formazione organizzati dalle Regioni; egli deve inoltre indicare i criteri per il riconoscimento e l’equiparazione dei profili professionali sinora esistenti.

Un trattamento a parte viene riservato ai profili professionali dell’area sociosanitaria. Emerge, in tal modo, la questione relativa alla collocazione dell’educatore professionale che non rientra solo fra le professioni sociali, ma anche tra quelle sanitarie (anche se solo presso la sanità ha ricevuto il riconoscimento del profilo professionale).

Il ministro della Salute ha infatti influito sulla definizione di figure di rilievo nazionale, fissando i requisiti dei professionisti sociali abilitati ad operare nella sanità, soprattutto nei servizi di integrazione sociosanitaria.



Il Ministero si è costituito quindi come fonte normativa parallela a quella sociale e, con proprio decreto, ha individuato il profilo dell’educatore professionale per le esigenze dei servizi che afferiscono alla sanità. L’inconveniente che ne è derivato, è l’istituzione di una stessa figura professionale, con competenze e funzioni molto simili, operante in due comparti differenti.



1.3.3 Il nuovo assetto dell'Educatore Professionale

I processi in atto ridefiniscono ruoli e funzioni delle pubbliche amministrazioni, dei servizi, dei professionisti e degli utenti.

Si delinea un nuovo quadro in cui: l’utente, non più oggetto dell’intervento ma risorsa, è libero di scegliere da chi farsi assistere aumentando, di fatto, il proprio potere contrattuale e riducendo l’asimmetria con il servizio ed i suoi professionisti; si assiste al passaggio dal progetto del servizio al percorso accompagnato ed individualizzato.

Potremmo dire, in sintesi, che gli obiettivi che i servizi dovranno perseguire nei prossimi anni saranno qualità ed equità, attraverso le metodologie della progettualità e dell’integrazione.

Questi orientamenti convergono tutti nell’indicare nel territorio e nella comunità locale la dimensione nodale per il lavoro futuro dei servizi.

Solo sul territorio possono infatti essere letti i bisogni nel loro emergere e nelle loro caratteristiche intrinseche; solo lavorando con il territorio si possono favorire relazioni significative tra servizi ed utenza.

Le più recenti leggi (L.229/99, L.328/00) hanno, in proposito, introdotto sempre più insistentemente il principio della sussidiarietà orizzontale.

Tale concetto si esplica, come già detto, con l’individuazione dei soggetti privati (cooperative sociali, volontariato…).

La sussistenza e l’assistenza indiretta aprono nuovi interrogativi alla professione dell’educatore professionale, soprattutto se inserito nell’ente pubblico.

L’educatore pubblico verrà sempre più indirizzato verso nuove funzioni di valutatore e accompagnatore. In quanto valutatore, l’educatore rivolgerà la propria attenzione alla molteplicità degli enti erogatori di servizi, essendo l’utente concepito come libero consumatore di servizi.

La funzione di accompagnamento affidata all’educatore dell’ente pubblico riguarderà gli utenti non in grado di scegliere autonomamente tra la pluralità dei soggetti produttori di servizi. E’ evidente che le nuove funzioni richiederanno uno sforzo da parte degli educatori professionali nella direzione dell’implementazione di competenze e saperi.

C’è un fabbisogno di competenze gestionali che investe non soltanto responsabili, dirigenti, ma anche la generalità degli operatori.

La capacità organizzativa rientra quindi nel nuovo bagaglio delle competenze necessarie all’educatore.

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