lunedì 12 marzo 2012

Tesi di Elisa Casetta -Conclusioni-

Eccoci al termine di questo splendido percorso, in cui Elisa Casetta, con la sua tesi, ci ha permesso di approfondire chi sia, e che cosa cosa significhi fare l'Educatore Professionale.
Vogliamo rivolgerle, da parte di tutta la redazione di Educatori in (educ)azione, un sentito grazie, innanzitutto per la disponibilità con cui ha accolto la nostra proposta di pubblicare la sua tesi, e poi per la professionalità con cui ha trattato un tema che ci riguarda in prima persona: quello della nostra professione. Grazie Elisa, sei stata una preziosa fonte di informazioni, e di spunti di riflessione.
Augurandoci altre pubblicazioni di questo spessore, vi invitiamo a leggere le conclusioni del suo lavoro, e a continuare a seguirci, perchè ciò che vi aspetta non mancherà di interessarvi.


CONCLUSIONI

A conclusione di questo viaggio in cui abbiamo esplorato la figura dell'educatore nella sua totalità e in tutti i suoi ambiti, si può delineare un epilogo provvisorio della situazione presa in esame.

Come già ribadito, la figura dell'educatore è, al momento attuale, al centro di dibattiti, discussioni e tentativi di formalizzazione controversi e di difficile definizione. Tale difficoltà attraversa interamente la figura dell'educatore, toccando gli ambiti della formazione, della definizione di un profilo, di un'identità comune, di una professionalità consolidata, e della vita lavorativa in generale.

L'educazione è perno attorno al quale ruota ogni argomento degno di nota sociale, etica, politica. È una parola vitale, che in questo periodo viene sempre più evitata e drammatizzata.

L'educazione ha a che fare con i bisogni primari e vitali di tutti, non è una risorsa opzionale e facoltativa, ma una necessità primaria.

Questa parola, anche se, mai come in questo periodo storico si nota, viene ignorata, trascurata o evitata, fa parte di noi, della nostra vita, dell'esperienza di ognuno. "Noi siamo l'educazione che abbiamo ricevuto, evitato o cercato, siamo l'educazione che abbiamo saputo dare agli altri, consapevolmente o meno, siamo l'educazione inconsciamente assorbita attraverso i modi più disparati, attraverso i quali ci hanno allevato, amato o trascurato, incoraggiato o avvilito".

Tutte le professioni sociali sono in tensione e messe in discussione dall'attuale clima politico e sociale, che spesso emargina invece di integrare.

Tutte si interrogano sulla loro funzione a sostegno dei cittadini nel proseguire la loro autonomia possibile. Per gli educatori professionali la tensione si manifesta con intensità particolare, in quanto percepiscono il rischio di evanescenza del loro ruolo tra le professioni sociali.

Come ri-dare solidità a tale ruolo per non rischiare che questo si riduca a semplice erogazione di prestazioni, compiti di assistenza e si rielabori una logica educativa, propria di tale professione?

La crisi attuale appare con evidenza nella sua dimensione economica e ne avvertiamo, fin troppo bene, gli effetti nella vita quotidiana. Gli effetti della crisi sono tangibili e riscontrabili per esempio nel fenomeno della disoccupazione e di un senso generale di incertezza verso il futuro; meno evidenti, invece, sono gli effetti della crisi sui cardini della struttura sociale, in particolare su ciò che tiene insieme una comunità e i servizi di cura: sanità, assistenza ed educazione.

Sotto i drammatici fenomeni legati all'impoverimento economico e culturale, avvengono spostamenti assai meno visibili che finiscono per investire le modalità tradizionali e istituzionali della cura e in particolare del fare educazione, e mettono in discussione il riconoscimento sociale di chi lavora in questo campo.

Importanti questioni sono state analizzate nel corso dei precedenti capitoli: Come è cambiato il profilo professionale dell'educatore?


Qual è oggi il nucleo irriducibile del suo lavoro?

Perchè la figura dell'educatore rimane relegata ai margini delle politiche sociali e dei servizi e non vi è un riconoscimento adeguato del suo operato e della sua professionalità?

All'operatore sembra essere richiesto un intervento che supera o restringe la sua identità professionale. Che sia per sovrapposizione, nel momento in cui avverte la necessità di prestazioni supplementari, rispetto a quella educativa, o piuttosto per erosione, che riduce l'educativo ad altro, ad assistenzialismo, controllo o semplice aiuto, i confini professionali sono posti in discussione. In più, si assiste al fatto che la professione educativa entra in competizione con altri professionisti o giunge a confondersi con chi semplicemente si occupa di assistenza.

Oggi l'educatore si trova spesso a doversi chiedere: "Che ci faccio io qui?", e come l'educatore lo fa l'intero gruppo di lavoro, in quanto è sempre più evidente che manchi un senso di appartenenza comune al mondo della cooperativa sociale, di cui tutti i servizi oggi fanno parte.

L' adesione ad una cooperativa, vent'anni fa era basata su un consenso ideologico e politico, mentre ora sono necessari titolo di studio e certificazione delle competenze.



Tuttociò ha portato a creare un sistema di lavoro piu rigoroso e disciplinato, ma anche fatto pagare un prezzo di un minor entusiasmo e passione: sembra venir meno l'idea di un gruppo che lavora insieme per lo stesso obiettivo e si ha la percezione di lavorare su binari già tracciati.

Sembra non esserci più un obiettivo comune di "cambiamento" semmai "miglioramento continuo", come insegnano le procedure di certificazione della qualità, che chiedono di dare evidenza oggettiva ad ogni processo lavorativo e lo sottopongono a continue verifiche per cercare appunto, un miglioramento.

Prima la percezione era quella di lavorare in fede ad un ideale, per inseguire uno scopo, una missione; ora l'idea è quella di lavorare per necessità, inseguendo tabelle orarie e restando fedeli solo al mercato del lavoro. Giostrare tutti gli educatori possibili su vari fronti è ormai diventata una realtà quotidiana che rende nettamente più difficile fermarsi a riflettere su ciò che si fà, importante competenza che dà sempre caratterizza le professioni sociali, in particolare quella dell'educatore.

Alla progressiva riduzione dei fondi e la scarsa capacità di creare politiche sociali adeguate, si accompagna una spinta alla formalizzazione che burocratizza all'estremo l'evento educativo: cerificazioni, accreditamenti, relazioni, progetti e mandati sempre più specifici ma spesso incomprensibili; tutto ciò sottopone l'educatore a un toure de force di adempimenti, che trasforma il lavoro educativo a puro prestiazionismo, rimandando alla riflessione su che cosa si intende per educazione e che tipo di educatore si vuole formare.

L'educatore stretto tra la quotidianità e le incombenze formali, tra la relazione con gli utenti e le procedure necessarie per far funzionare un servizio, rischia di non potersi occupare di ciò che rende il suo lavoro differente da quello di altri professionisti. "Rischia cioè di perdere di vista il suo principale obiettivo: lavorare per rendere possibile che qualcun altro, sperimenti l'apertura di un tempo e di uno spazio speciale, di separazione e sospensione della loro quotidianità, spesso non positiva".



La possibilità di riflessione, però, non si dà facilmente nel contesto odierno, sempre più povero di luoghi di riflessione e di supervisione anche nei servizi; quindi al nostro educatore spesso non resta che agire inventando nuove proposte di attività, che prendono spunto, per esempio, dalle sue passioni (ad es.: cucinare, andare a cavallo ecc.), come farebbe un qualsiasi adulto senza bisogno di non essere un professionista (genitore, volontario ecc.).

Quando succede questo la confusione che si genera crea un alone di invisbilità intorno alla figura dell'educatore, e apre lo spazio per una nuova domanda: "E' proprio vero che tutti possono fare gli educatori?" .

Siamo tutti d'accordo sul dire ciò che l'educatore non è (non è uno psicologo, non è un assistente sociale ecc.), piuttosto che dire cosa sia in senso positivo. "Che lavoro fai?" diventa una domanda insostenibile, alla quale l'educatore spesso non sa come rispondere e si trova in difficoltà nello spiegare quello che concretamente fà nella pratica lavorativa.

L'educatore trova la sua professionalità se entra in relazione con l'altro, cosa che però possono fare anche altri professionisti, come lo psicologo o il medico. Se è vero che tutti possono costruire relazioni e alcuni lo possono fare in modo professionale e terapeutico, che tipo di relazione è quella educativa?

Dunque, l'educatore potrebbe trovare la sua professionalità nel "fare", un "fare intenzionale", inteso come il guidare un'azione formativa ed esserne responsabili. Tuttavia ciò non distingue il fare dell'educutaore dal fare di un politico o di un assistente sociale.

Ancora, la specificità dell'educatore potrebbe essere il cercare di essere promotore di un cambiamento, ma il cambiamento può essere promosso da chi si trova ad educare perchè semplicemente genitore o insegnante.

Sembra essere un'opinione diffusa allora quella che tutti possano fare gli educatori, e spesso gli educatori stessi in assenza di risposte soddisfacenti, spostano l'attenzione sul versante della specializzazione.

La specializzazione è certamente utile e necessaria per lo sviluppo professionale, ma non può definire la scorciatoia per definire il lavoro educativo.



L'educatore, nella sua storia professionale, è riuscito a costruire una professionalità capace di operare in molteplici luoghi, a mobilitare energie educative-naturali, come le famiglie, le reti informali, allargando il modo della vita del disabile e rendendo lettera viva ai loro progetti e agli eventi educativi; a creare situazioni residenziali per persone psichiatriche, costruendo condizioni in cui la vivibilità è responsabilità diffusa del quartiere; ad animare i condomini e a farsi carico dei vicini di casa, di modo che le persone anziane si sentano più sicure se a casa sole; sono riusciti fare sognare migliaia di giovani, mettendo a disposizione luoghi da trasformare in imprese proprie e quanto serve per sentire di avere un progetto di vita tra le mani, a ridare il piacere di pensare ad un futuro per questi ragazzi, fornendo spazi per pensare, divertirsi, confrontarsi.

Sono riusciti insomma, a costruire cantucci di polis in cui è più piacevole vivere, crescere ed amare..

Allora, forse non è così vero che tutti possono fare l'educatore, ma sembra più facile lasciare nell'invisibilità il suo operato e nell'ombra la questione della professionalità: gli effetti dell'impegno educativo non sono tangibili, almeno non sempre e non subito; non si può misurare, quindi quantificare o qualificare il prodotto dell'agire professionale. Qui entra in gioco la questione della documentazione, come momento da privilegiare per raccontare, fare vedere ciò che si fa. È nella documentazione che è possibile pensare, conservare e trasmettere come tesoro agli altri, l'agire pedagogico.

Un altro punto in questione è quello dell'avvicinamento del lavoro educativo sempre più vicino e simile a quello assistenziale.

Ovvio che, l'assistenza, nel senso del prendersi cura ha a che fare da sempre con l'educazione, che sta alla base della società.

Oggi l'assistenziale appartiene a tutte le procedure in campo sociale e si annida negli interventi socio-sanitari e socio-educativi e ogni sua azione viene classificata in base al bisogno della persona e quindi al raggiungimento di un obiettivo quantificabile. Da qui il lavoro educativo spesso diviene semplicemente un lavoro di assistenza, di controllo delle qualità, di custodia, eliminando ogni possibilità alternativa.




"È vero che gli educatori, da decenni, attendevano un'adeguata formalizzazione della loro professione, ma ciò non toglie che il prezzo che stanno pagando per vedersi riconosciuti rischia di ammontare all'estinzione".

Il DM 520/98, così come il decreto interministeriale del 2 Aprile 2001, hanno contribuito sì alla formalizzazione e riconoscimento dell'educatore professionale, ma solo nel comparto sanitario, lasciando fortemente in disparte la figura sociale-educativa di questa professione.

In tal modo è avvenuto il passaggio dell'educatore da professionista "anfibio", ovvero capace di prestare la propria opera sia nel settore socio-assistenziale sia nel sanitario, a favore di un operatore riconosciuto formalmente solo nel sanitario. Questo sradica profondamente una delle principali competenze e caratteristiche dell'educatore, che si ritrova impreparato a lavorare nel sociale, a fare opera di prevenzione e sostegno e non solo di cura ed assistenza.

Tuttavia, le altre figure professionali posseggono almeno qualche certezza a cui ricorrere nei momenti di difficoltà: l'albo professionale.

Nella ricerca condotta sulla figura dell'educatore, molti hanno individuato come mezzo per avere un maggior riconoscimento e professionalità la costituzione di un albo professionale, come atto che già di per sé sancisce la nascita di una professione.

Le ipotesi su cui si è basata la ricerca, vengono confermate in quanto

la maggior parte degli educatori ha riscontrato il problema del riconoscimento come punto debole della professione, e insieme, aggiunto che l'educatore stesso ha difficoltà a parlare di sé e questo crea grosse difficoltà a livello identitario. La dimensione identitaria di una professione costituisce qualcosa di fondamentale, che porta la persona a riconoscersi in quello che è professionalmente. Forse nella professione dell'educatore manca proprio questo sentirsi parte di un tutto.

È tempo di uscire dall'improvvisazione, che ha caratterizzato l'educatore negli anni passati, per costruire una professione scientificamente fondata, basata in particolar modo sulla progettazione educativa e sulla competenza pedagogica.

Essere dotati di metodo e rigorosità scientifica, non significa escludere il lato umano e il carico emotivo che porta sempre con sé questa professione, ma anzi significa recuperare queste caratteristiche per poterle affrontare al meglio.

È importante riaffermare con forza che l'esperienza educativa si distingue da qualsiasi altra esperienza, se pur ricca e significativa della vita; essa è un'esperienza indispensabile e protetta, che l'educatore, confrontandosi in équipe, progetta, allestisce e valuta, non solo come responsabile ma anche come regista. Ma questo non basta: "è necessario creare una cultura che non sia solo genericamente educativa, ma che dimostri nella teoria e nella pratica il valore e le peculiarità dei saperi pedagogici. Ciò è possibile sono facendo ricerca e, in particolare, tenendo insieme l'educazione fatta sul campo con quella scritta sui libri".

Se l'educatore non intende incorrere nel rischio di venire travolto da un rapido processo di obsolescenza delle competenze o della professione stessa, dev'essere in grado di adoperarsi in primo luogo per promuovere ricerca e integrarla nella quotidianità del suo lavoro, e sia lui stesso promotore di cambiamento sociale e culturale.

Importante, inoltre, è documentare la perizia educativa sul campo, bisogna depositare le azioni in vista di un'autentica, seppur critica e problematica, scientificità pedagogica; mirare ad una formazione attenta e permanente, per garantire sempre la conoscenza dei contesti in cui si lavora, la flessibilità e l'apertura al cambiamento e a possibili nuovi scenari; infine, costruire una logica del servizio, insieme al progetto esistenziale del soggetto, per far sì che il servizio non sia solo luogo di assistenza e cura, ma anche teatro delle sue possibilità.

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